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giovedì 18 dicembre 2014

Multitasking: inefficace, disorganizzato e tossico

Adesso gli scienziati lanciano l’allarme sulle conseguenze del multitasking trilla un recente articolo su La Repubblica. Dopo un lungo, colorito esordio arriviamo a un primo fatto: Sandra Bond Chapman, fondatrice del Center for Brain Health dell’università di Dallas, afferma che il multitasking accresce i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. E spiega che il nostro cervello sa far bene una cosa alla volta: i neuroni, se devono sorvegliare molte attività contemporaneamente, non riescono a spartirsi i compiti e li tengono tutti sotto controllo millisecondo per millisecondo, commutando il proprio impegno dall’uno all’altro. Risultato: un superlavoro che produce risultati modesti e imprecisi.
Il secondo fatto è questo: una “recentissima ricerca” svolta da Altmann, Trafron e Hambrick dell’Università del Michigan su un campione di studenti dimostra che basta l’apparizione di un pop up in cui bisogna inserire un codice per moltiplicare le possibilità di errori in un compito di routine svolto al computer.
Bene, evviva, finalmente si dice forte e chiaro che il multitasking non funziona.
Due clic e vado a vedere: in realtà l’allarme dei ricercatori sul multitasking non è cosa di “adesso”.
Quasi due anni fa su Forbes la stessa Chapman esalta il single tasking, riferendosi al proprio libro Make your brain smarter, uscito il primo gennaio 2013. E va giù dura: il multitasking è tossico, diminuisce l’acutezza mentale e la memoria e provoca un declino cognitivo precoce. Dice che l’essere costantemente connessi causa un rilascio di dopamina nel cervello che può creare dipendenza e che rende incessante il bisogno di velocità e nuovi stimoli. Aggiunge che basterebbero poche ore di training per imparare a pensare in maniera strategica, una cosa alla volta, addestrandosi a filtrare le sollecitazioni esterne. L’articolo è interessante e potreste dargli un’occhiata, link e consigli compresi.
Anche lo studio di Altmann, Trafron e Hambrick (qui il paper) è uscito nel gennaio 2013. Un ottimo articolo di Psychology Today ne spiega lo svolgimento e i risultati: il multitasking pregiudica la memoria di lavoro. Cioè ci fa dimenticare quel che abbiamo fatto appena prima e quel che dovremmo fare subito dopo l’interruzione. Questi vuol dire che se stiamo scrivendo perdiamo il filo, se stiamo pensando perdiamo il senso, e se stiamo eseguendo una qualsiasi procedura non sappiamo più a che punto siamo della sequenza.
Ma già nel 2006 l’American Psychological Association se la prende col multitasking, segnalandone l’inefficacia a partire da diverse ricerche, alcune svolte addirittura nei primi anni Novanta quando, in Italia, di multitasking non avevamo neanche cominciato a parlare.
Nel 2009 l’università di Stanford dimostra che i multitasker non sono né più abili né più veloci dei single taskers, ma semplicemente più disorganizzati e incapaci di focalizzare l’attenzione.
È invece davvero recentissimo (settembre 2014) un preoccupante studio dell’università del Sussex, il primo a mettere in evidenza una correlazione tra struttura del cervello e propensione al multitasking. In sostanza, i multitasker presentano minore densità di materia grigia nella parte del cervello (la corteccia cingolata anteriore) responsabile dell’empatia, del controllo degli impulsi e delle emozioni, dei processi decisionali. Inoltre risultano più soggetti ad ansia e depressione. Però non si capisce ancora se questa sia una causa o un danno conseguente alla pratica del multitasking.
Com’è allora che, nonostante anni di evidenze scientifiche, il multitasking fino a ieri è sembrato il massimo della modernità, almeno qui da noi? Ho l’antipatico sospetto che esaltarlo fosse anche un comodo modo per giustificare il superlavoro femminile. Guardate qui, per esempio: di una ricerca che mette a confronto uomini e donne nello svolgimento di più compiti non si segnala il drammatico peggioramento delle prestazioni di tutti, ma si enfatizza il fatto che le prestazioni femminili peggiorino (appena) un po’ meno. Un articolo americano sulla medesima ricerca, invece, in conclusione mette comunque in guardia contro il multitasking.
Alcuni hanno perfino, e in modo un po’ spericolato, sostenuto che sia stato l’obbligo del multitasking, e non – per esempio – la maggiore scolarizzazione o il miglioramento delle condizioni medie di vita, a rendere più intelligenti le donne.
E dai, non scherziamo.
Un altro sospetto antipatico riguarda l’incessante pressione commerciale per diffondere l’impiego di schermi e applicazioni di ogni tipo, e l’altrettanto forte pressione mediatica volta a stimolare interazioni elementari (Guarda qui! Dicci quel che pensi! Approva! Disapprova! Esprimiti!) ma comunque fidelizzanti nei confronti dei media medesimi.
Il sospetto meno antipatico, invece, riguarda una più generica e pervasiva fascinazione per la modernità, perfino quando si esprime nelle sue forme più dispersive e disfunzionali.
Com’è, invece, che proprio ora si è cominciato a parlar diffusamente male del multitasking (cercate su Google le notizie uscite negli ultimi mesi e vedrete che c’è una presa di distanza generalizzata, all’estero e anche in Italia)?
Da una parte, le evidenze contro il multitasking sono cresciute così tanto che diventa difficile ignorarle. Lo studio dell’università del Sussex, per esempio, è stato ampiamente ripreso in tutto il mondo. Dall’altra, il testo “Pensieri lenti e veloci” del Nobel Daniel Kahneman ha, come scrive il Guardian, radicalmente “cambiato il modo in cui pensiamo al pensiero”. Infine, dallo Slow Food allo Slow Design, alla Slow Medicine, alla Slow TV la lentezza sta tornando di moda.

http://nuovoeutile.it/multitasking/

giovedì 23 ottobre 2014

Università on line più aperte ed efficienti: ecco la «ricetta» della Commissione Ue


Da Bruxelles le 15 «raccomandazioni» per utilizzare al meglio le risorse garantendo accesso libero, corsi di qualità e corretto riconoscimento dei crediti

Un quadro nazionale per le competenze digitali, formazione specifica per i docenti, investimenti nelle infrastrutture per l’Itc. Ma anche riconoscimento dei crediti conseguiti on line e liberalizzazione dell’accesso ai materiali didattici attraverso il potenziamento delle «open licenses». E’ questa la «ricetta» per potenziare la formazione universitaria online e dare un nuovo impulso ai corsi di laurea a distanza secondo la Commissione europea, che ha appena pubblicato il rapporto del Gruppo di studio Ue sull’istruzione superiore: un documento che in 15 «raccomandazioni» sintetizza la strategia per un utilizzo più efficace delle risorse, a partire da quelle messe in campo con Erasmus +, il nuovo programma Ue 2014-2020 per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport . «L’Europa si trova a far fronte alle sfide poste da un maggior numero di studenti, da un maggiore diversità tra di essi e dall’esigenza di migliorare la qualità dell’apprendimento e dell’insegnamento - ha detto la commissaria Ue per l’Istruzione, Androulla Vassiliou - e apprezzo che il nuovo programma Erasmus +, che ho lanciato a gennaio, sarà in grado di sostenere l’attuazione delle raccomandazioni del gruppo».

Strategia integrata
«Le risorse didattiche provenienti da tutto il mondo stanno diventando liberamente accessibili e sempre più interattive e vanno ben oltre la mera lettura online» spiega la Commissione, sottolineando che il Web consente agli studenti di usufruire di programmi «adattati» alle loro esigenze, mentre ai docenti offre la possibilità di avere «un riscontro più rapido sul rendimento degli studenti e di individuare gli ambiti nei quali è necessario un sostegno maggiore». Ma, secondo Bruxelles, la maggiore diffusione e lo sviluppo dei programmi di insegnamento on line negli atenei europei «sono opera di poche persone entusiaste» perchè «manca ancora un’azione strategica coerente in seno alle istituzioni o nei vari paesi». Ecco quindi che le linee guida elaborate dal Gruppo di studio indicano la direzione per lo sviluppo di un piano di istruzione universitaria on line dove gli atenei, nel ruolo di capofila, dovranno essere sostenuti dai rispettivi governi nazionali nel processo di cambiamento.
La strategia parte dalla definizione dei livelli di competenze: ogni stato membro dovrebbe definire un proprio quadro nazionale di riferimento da integrare, poi, nel «framework» di sviluppo professionale dei docenti. I prof, dal canto loro, dovranno ricevere una specifica formazione - sia iniziale che continua - in tecnologie e pedagogie digitali.

I fondi comunitari messi in campo con Erasmus +, secondo il documento, dovrebbero essere destinati in via prioritaria allo sviluppo di nuove modalità di apprendimento e insegnamento via Web, anche per promuovere partnership sperimentali tra atenei e provider specializzati. Allo stesso modo, Erasmus + può servire a definire nuovi criteri di valutazione, attraverso la definizione di un sistema di standard di qualità della didattica on line che gli atenei potranno utilizzare per la «misurazione» delle loro performance.

Riconoscimento dei crediti
Secondo Mary McAleese, capo del Gruppo di studio che ha elaborato il documento «l’Europa è ancora in ritardo rispetto agli Stati Uniti nell’impiego delle nuove tecnologie nell’università» e in tal senso «dovremmo valorizzare i nostri punti di forza, come per esempio un utilizzo generoso dei crediti definiti secondo il sistema Ue di trasferimento Ects, per garantire un apprendimento digitale riconosciuto, accreditato e di qualità certificata». Per questo tra le raccomandazioni messe a punto dal Gruppo c’è quella di una riforma del sistema Ects che garantisca un pieno riconoscimento dei crediti formativi conseguiti con qualsiasi tipo di corso on line. Ma anche l’invito per i governi a rendere il materiale didattico digitale pienamente accessibile, riproducibile e modificabile ovunque e da chiunque attraverso il sistema delle licenze aperte.

http://www.scuola24.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANO_SCUOLA/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/2014/10/23/modernisation_universities_en.pdf

martedì 14 ottobre 2014

ScuolaInterattiva, Mappe per apprendere



ScuolaInterattiva, Mappe per apprendere è il canale youtube pensato da Paolo Scorzoni e gestito con la collaborazione di Marta Zonzin e Daniele Pavarin, che aderisce a YouTube EDU.

La loro missione è facilitare l'apprendimento di concetti complessi.

Le nostre mappe non sono il tutto, se ti fermi ad esse ti fermi alla superficie; ma da qualche parte bisogna pur cominciare...


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ScuolaInterattiva
Le flipped classroom

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http://www.youtube.com/user/ScuolaInterattiva/about

martedì 9 settembre 2014

Il Sole 24 ore - Scuola


9 settembre 2014: da oggi online «Scuola24»: tutte le novità:

http://www.scuola24.ilsole24ore.com/

mercoledì 27 agosto 2014

Dieci trucchi per trovare un lavoro con Linkedin

È il curriculum dell’era digitale, la vetrina da offrire ad aziende e colleghi per spiegare chi sei, da dove vieni, cosa cerchi. E allora il profilo su LinkedIn, il social network professionale più popolato e importante, va curato e studiato proprio come si fa per il curriculum di carta. A offrire le dieci dritte fondamentali, per dare subito una buona impressione e far sì che il profilo funzioni, è il laboratorio socialLink Humans . Tra le regole, anche due cose che in pochi fanno: pubblicare post su LinkedIn e includere nel profilo le attività di volontariato. Ma ecco tutti i consigli.

1. Fatti notare già dal titolo

La prima riga sotto il nome definisce chi sei, almeno agli occhi di aziende e “cacciatori di teste”. Limitarsi a una dicitura poco precisa o scialba non è il miglior modo d’iniziare. Meglio metterci
un po’ d’impegno e scegliersi il titolo giusto!

2. Ricordati il settore

In molti tralasciano di farlo, ma includere il settore di riferimento per il proprio profilo è un’altra cosa importante. Serve ad essere trovato proprio da chi è nel tuo stesso ramo, in modo mirato. E a mostrare di avere le idee chiare.

3. Scrivi qualche post

LinkedIn non è Facebook, e guai a confondere i due piani. Ma, specialmente se si sta cercando di attirare l’attenzione, è molto utile pubblicare qualcosa nella propria bacheca. Non gattini, ma notizie interessanti e soprattutto pertinenti al proprio settore. Oppure link a pagine dove si veda un lavoro fatto di recente. Con moderazione, perché lo spam non piace a nessuno, e su LinkedIn ancora meno.

4. Usa le giuste parole chiave

Il riassuntino che si dà di se stessi dev’essere preciso, breve, efficace, non troppo formale: pensalo come un’ideale lettera di presentazione. Ma è utile anche metterci un ingrediente in più: le parole chiave giuste, anche queste selezionate e precise, per saltar fuori nelle ricerche delle aziende del proprio settore.

5. Aggiungi video e immagini

Anche nell’elenco delle proprie esperienze professionali pregresse c’è un ingrediente capace di fare la differenza. Si tratta di video, immagini, anche infografiche per chi sa farle. Utili per illustrare e raccontare – non più solo a parole – chi eravamo nella vita professionale precedente. E molto d’impatto, proprio perché in pochi sanno dare questo tocco multimediale al proprio profilo.

6. Includi i dettagli essenziali

Chi cerca qualcuno da assumere vuole informazioni essenziali e sintetiche, ma anche complete. Nel compilare l’elenco delle proprie esperienze passate, è il caso di tenerne conto e saper scegliere – per ogni lavoro – i dettagli più rilevanti su mansioni, competenze acquisite, incarichi di responsabilità.

7. Metti in ordine le tue doti

Aver ben presente quali sono le proprie qualità e competenze professionali e darci un’esatta gerarchia è una delle regole auree per presentarsi a un colloquio ben attrezzati. Serve, di riflesso, anche su LinkedIn, che del resto consente non solo di aggiungere al profilo una lista con le competenze, ma anche di riordinarla, posizionando in cima quelle da mettere in evidenza.

8. Scegli bene a che gruppi aderire

Come su Facebook, anche su LinkedIn ci sono i gruppi, che di solito radunano persone con lo stesso lavoro, dello stesso settore, con interessi professionali analoghi. Ebbene, anche questa è una cosa da non prendere alla leggera. I gruppi ai quali aderiamo finiscono in fatti, visibili, in coda al nostro profilo. E potrebbero essere usati per valutare se abbiamo senso critico e capacità di distinguere le cose interessanti da quelle poco utili.

9. Non dimenticare il volontariato

Se sei tra i tantissimi italiani che prestano il loro tempo gratis , per attività a fin di bene, su LinkedIn non ha senso nasconderlo. È parte della tua storia e personalità, un dettaglio che il tuo futuro datore di lavoro ha interesse a conoscere e che valuterà senz’altro positivamente.

10. Spiega bene cosa hai studiato

Come per le passate esperienze lavorative, anche sugli studi c’è da essere molto precisi e dettagliati. Spesso pensiamo che basti il titolo di studi e diamo per scontato che chi legge sappia per filo e per segno a cosa corrisponde. Meglio invece indicare, anche qui, che tipo di esperienze e competenze abbiamo messo nel bagaglio professionale.

domenica 3 agosto 2014

Il medium dei media: la RADIO - RAI 3 UOMINI E PROFETI

Nata nel 1982 con l’obiettivo di interrogare i grandi temi, i testi, le figure delle diverse tradizioni spirituali, nel 2013 Uomini e Profeti ha superato i suoi trent'anni di vita. Fra le sue maggiori realizzazioni va ricordato, almeno, il lungo itinerario di lettura integrale e commento della Bibbia, in dialogo con interpreti di diversa provenienza. Dal 1993 Uomini e Profeti, sulla linea di confine tra le fedi religiose e la complessità del mondo in trasformazione, ha avuto una doppia articolazione, che l’edizione di quest’anno vedrà ancora più marcata: Storie, nella puntata del sabato, raccoglierà racconti delle diverse esperienze di fede; mentre Questioni, nella puntata della domenica, sarà un'esplorazione ravvicinata dei punti di maggior tensione del religioso contemporaneo.



http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/PublishingBlock-21e3c4a0-7f5a-440b-a32b-18135e27580f-podcast.html

Biblioterapia, quei libri che aiutano a guarire ......


"Rime di rapido effetto, per anima e cuore, che risolvono catastrofi sentimentali lievi e mediamente gravi. Salvo diversa prescrizione, si consiglia la somministrazione su più giorni in un dosaggio ben tollerabile (da 5 a 50 pagine). Se possibile effettuare il trattamento con i piedi caldi e/o un gatto in grembo". E' questa l'inconsueta 'prescrizione medica' contenuta nel libro Una piccola libreria a Parigi (Sperling & Kupfer, Euro 16,90), il bestseller della tedesca Nina George che in Germania ha venduto oltre 200.000 copie, è stato per 20 settimane in cima alla classifica di Der Spiegel ed è da poco arrivato anche in Italia. Fulcro del romanzo è la Farmacia Letteraria di Jean Perdu, lo straordinario libraio protagonista del romanzo che trova un libro-medicina per tutti. Proprio il tema della lettura come cura è alla base della biblioterapia, ovvero la possibilità di star bene attraverso i libri. E visto che d’estate si legge di più, abbiamo chiesto agli esperti in cosa consiste la biblioterapia, per quali disturbi è indicata e quali libri mettere in valigia per una vacanza all’insegna del benessere. 

Una terapia antica. Già Aristotele credeva che la letteratura potesse guarire le persone e gli antichi romani riconobbero l’esistenza di un rapporto tra medicina e lettura. Nel 1937, lo psichiatra W.C. Menninger iniziò a parlare di libro-terapia utilizzando la tecnica nel trattamento della malattia mentale. Negli Stati Uniti e in Inghilterra, la biblioterapia è più diffusa e sono molti gli studi internazionali che ne attestano la validità nel trattamento di vari disturbi psichici dell’età adulta ma anche evolutiva. "La biblioterapia è intesa in vari modi: come terapia, come strumento per risolvere problemi, come confronto con altre esperienze. Io preferisco pensare ai libri come occasione di crescita personale", dice Barbara Rossi, psicoterapeuta di Milano e autrice del libro Biblioterapia. La lettura come benessere (La Meridiana, 128 pag., 15 Euro). "E' un'evidenza clinica, ma anche pedagogica e culturale, che chi legge acquisisce un maggior numero di parole per esprimersi, affina la capacità di mettersi nei panni degli altri, la sua sensibilità, la capacità di tradurre ciò che sente. Insomma, alla fine 'vive molte più vite', parafrasando Pérez-Reverte nel suo celebre La regina del sud"", prosegue l’esperta.

FOTO Dieci libri per 'curarsi' in vacanza

I libri-medicina. Ma quali sono le malattie o i disturbi che più si prestano ad essere curati con il sostegno della lettura? Principalmente quelli legati alla sfera dell'umore e alle condizioni patologiche derivate da perdita del lavoro, la fine di un amore, un lutto in famiglia o semplicemente una fase depressiva. Se il momento che state vivendo è critico, la lettura del libro giusto può aiutarvi a 'guarire' o almeno a migliorare. "La biblioterapia può essere applicata nell’ambito della psicoterapia per la cura di disturbi di lieve e media entità come i disturbi dell’umore e del comportamento alimentare e le varie forme di dipendenza, dall’alcol, alla droga alla ludopatia", spiega Rosa Mininno, psicologa e psicoterapeuta, ideatrice del sitowww.biblioterapia.it. "L’importante è chiarire che la sola lettura di un libro non può guarire, ma può avere una efficacia se integrata in un percorso di psicoterapia e con la scelta giusta dei testi in relazione alla situazione del singolo paziente e alla sua capacità di lettura". Ad apprezzare di più la lettura terapeutica sono soprattutto le persone molto diffidenti verso il prossimo e che fanno fatica a fidarsi degli altri magari a seguito di brutte esperienze.

Per tutte le età. La biblioterapia è adatta a tutte le età. Non solo gli adulti, ma anche i bambini e gli anziani che possono esplorare anche le nuove modalità di lettura: gli e-book per i primi e gli audiolibri per i secondi che magari hanno qualche difficoltà visiva. "Per i bambini la lettura anche molto precoce è una risorsa inestimabile. Non a caso vari studi hanno dimostrato che se la mamma legge un libro già a partire dai 6 mesi il bimbo non smette più di chiederlo", spiega la psicologa Rossi. La lettura terapeutica può essere anche una forma di prevenzione: "Le persone che leggono hanno una mente più plastica e dinamica, guardano dentro sé stessi, sanno riconoscere i problemi ed eventualmente chiedere aiuto» precisa Mininno. Lo dimostra anche uno studio pubblicato sull’International journal of group psychotherapy: "La lettura nel contesto della terapia di gruppo aiuta i pazienti ad aprirsi, ad esplorare se stessi e a comunicare i loro vissuti", aggiunge Rossi.

I romanzi potenziano l’empatia. Chi legge romanzi comprende meglio il prossimo. A sostenere questa tesi è invece un recente studio pubblicato sulla rivista Science e condotto da uno psicologo italiano, Emanuele Castano, alla New School for social research di New York. L’ipotesi da cui sono partiti i ricercatori è che il romanzo possa rappresentare una specie di allenamento alla comprensione delle emozioni degli altri. "Leggere un libro significa mettersi nei panni del protagonista e vivere con lui le sue avventure - spiega ancora Barbara Rossi - : ora sei il capitano Nemo alle prese con le avventure del Nautilus, ora sei il piccolo Sebastian, de La storia infinita, deriso dai bulli della scuola, in bilico tra la paura di essere braccato da loro e la paura del compito in classe... ora sei David Servan Schreber, cui hanno diagnosticato un tumore e si chiede come parlare ai suoi figli, come essergli utile quando non ci sarà più.... Esperienze che solitamente non si possono collezionare in una sola vita ed è così che si può scoprire quel mondo che cercavi e che per qualche motivo non avevi ancora conosciuto". Dallo svolgimento della ricerca è emerso che i volontari che avevano letto pagine di romanzi aveva ottenuto punteggi migliori nei test di teoria della mente (per esempio, riconoscere dagli occhi l’emozione provata) rispetto a chi aveva letto libri di saggistica oppure niente.

Cosa mettere in valigia. Visto che si ha più tempo a disposizione, la vacanza è l’occasione migliore per prendersi cura di sé attraverso la lettura. "Mettere in valigia un romanzo aiuta a staccare davvero, può evocare ricordi e aprire nuove piste o soluzioni inaspettate ai vari problemi che ci assillano", dice Rosa Mininno. Ma come scegliere il libro giusto? "Partendo dal presupposto che non esiste un libro che va bene per tutti, in assoluto, si possono dare alcune indicazioni a seconda del tipo di problema", spiega Rossi. Cosa consigliare, ad esempio, a chi ha appena perso il lavoro? "Il libro adatto è 'Chi ha Spostato il Mio Formaggio?' perché è un invito a sperimentare la propria imprenditorialità esplorando nuovi percorsi", suggerisce l’esperta. E a chi sta vivendo il dolore di un lutto familiare? "Consiglio 'Tu non ci sei più e io mi sento giù': è uno splendido libro per tutte le età, per parlare del dopo, ma ci sono anche Oscar e la dama in rosa, per parlare degli ultimi giorni, delle cose difficili da vivere.... E poi sicuramente 'Ho vissuto più di un addio' di David Servan-Schreiber", conclude Rossi. Per scoprire quali libri mettere in valigia, guarda la foto-galleria che suggerisce dieci libri per diversi problemi.


http://www.repubblica.it/salute/prevenzione/2014/07/31/news/biblioterapia_-92829950/?ref=HRLV-21


mercoledì 11 giugno 2014

“Oppia”, la piattaforma di Google che rivoluzionerà l’educazione?

Un sistema per rendere più semplice a tutti l’apprendimento di nuove attività, come suonare il pianoforte o ripassare le leggi della fisica: si tratta di Oppia, il progetto open source di Google che ha fatto il suo debutto in questi ultimi giorni. Una piattaforma sempre in divenire, dove chiunque può contribuire ad accrescere le modalità con cui imparare un’attività, attraverso un’interfaccia web accessibile senza bisogno di avere particolari capacità di sviluppo.

Oppia è, infatti, un sistema basato su un mentor, ovvero una persona che crea alcune domande all’interno del sito. In questo modo si spingono gli utenti a collaborare per fornire le migliori risposte e per creare un vero e proprio modulo di apprendimento. Lo stesso mentor può decidere quando un feedback è corretto o meno, se la questione va approfondita e in quali aspetti. Il sito, rispettando l
a privacy degli iscritti, raccoglie informazioni su come gli studenti interagiscono tra di loro, e offre ai mentor importanti suggerimenti su come “correggere il tiro” e incontrare meglio le esigenze dei partecipanti. Questa sorta di feedback continuo rappresenta la trasposizione digitale di quello che succede all’interno di una scuola classica, dove insegnanti e alunni dovrebbero stabilire un rapporto di “fiducia” reciproco. Un esempio è quando gli utenti continuano a dare risposte non adeguate alla domanda posta, oppure non chiare per tutti. In questo modo l’autore può creare un nuovo percorso di studi specifico e adatto a chi è già ad un livello successivo creando, di fatto, diversi gruppi di apprendimento.

Google ha sviluppato Oppia partendo da un presupposto: l’educazione online è fondamentale e non può essere ridotta ad una serie di contenuti video, audio o testi interattivi. “La chiave è la risposta degli utenti – si legge sul sito – una persona non può imparare a suonare il pianoforte solo guardando un video di un esperto”. Nonostante la sponsorizzazione alla base di Oppia, Google ha ribadito come la piattaforma non sia un prodotto dell’azienda, sperando che il sito viva autonomamente, aumentando e migliorando grazie ad una comunità di esperti e appassionati.


martedì 10 giugno 2014

La filosofia nella scuola elementare

Il progetto di un’ora alla settimana per introdurre i bimbi al pensiero filosofico di Lilli Garrone

Nel nome è già il programma: «Filosofia con i bambini», e non «insegnata ai bambini». Una differenza fondamentale «perché non si parte da una storia letta, da un racconto o da una narrazione – spiega Carlo Maria Cirino, tutor e uno degli ideatori del progetto - ma partiamo dagli oggetti. Quindi è un tipo di filosofia analitica che nasce dalla necessità di integrare la normale attività scolastica arricchendola di esperienze altamente innovative». Semplificando è un po’ come se i ragazzi fra i 5 e gli 11 anni (questa è l’età alla quale viene applicata, praticamente tutte le elementari), diventassero loro stessi un po’ filosofi, applicando un metodo che li spinge ad indagare anche su oggetti di uso quotidiano. Un metodo ancora sperimentale che spinge i giovani a «sviluppare l’immaginazione», come aggiunge Carlo Mari
a Cirino. Una pratica educativa che, per il momento, si sviluppa con un’ora alla settimana nelle scuole o attraverso laboratori: «Un insegnamento sui generis – come è scritto nell’introduzione all’ultimo libro pubblicato “Il cucchiaio” – che non si pone come obiettivo la trasmissione di qualche nozione, bensì lo sviluppo di forme autentiche di conoscenza o di pensiero,( idee, parole, concetti, sentimenti, emozioni) da parte dei bambini, che la praticano in gruppo o singolarmente».

Più apertura mentale, possibilità immaginative e propensione al dialogo

La «Filosofia con i bambini» nasce nel 2008 all’università di Urbino, con dei laboratori di filosofia ed arte, diventando in seguito un dottorato di ricerca: a praticarla oggi sono in tre o quattro dottorandi. Ma «noi insegniamo gratuitamente il metodo – spiega Carlo Maria Cirino – anche a chi non è necessariamente laureato in filosofia, ma in una qualsiasi materia letteraria: lo stare con i bambini non è però qualcosa che si insegna, bisogna avere una naturale tendenza o passione». E dedicando il loro tempo al progetto il metodo è già stato applicato in alcune scuole delle Marche e della provincia di Mantova: quest’estate porteranno i laboratori a Ostuni in Puglia e l’anno prossimo i tutor sceglieranno cinque o sei scuole fra quelle che ne hanno fatto richiesta e a seconda delle domande che arriveranno decideranno dove andare. Ma l’idea del team è di fare una sperimentazione più a lungo termine. «Se riusciamo – conclude Carlo Maria Cirino – vorremo fare un’ora di filosofia con i bambini dalla prima elementare alla quinta tutte le settimane. I vantaggi? Risolverebbe il problema del passaggio alla scuole media, perché sarebbero studenti più preparati ad affrontare il passaggio: il passaggio alle medie è, infatti, una crisi gigantesca». I laboratori, infine, non necessitano di alcun materiale specifico se non di una partecipazione il più possibile costante da parte degli alunni, consentirà loro di raggiungere quelli che sono gli obiettivi ormai classici della filosofia insegnata ai bambini, ovvero: un incremento dell’apertura mentale, delle possibilità immaginative, dell’amore per il dialogo e la discussione regolamentata all’interno di un gruppo e non ultima la capacità di trattare concetti complessi e profondi quali quelli di vita, morte, amore, dolore, cultura, integrazione, possibilità, ecologia, sogno, anche in giovane età.

9 giugno 2014 | 11:27

http://www.corriere.it/scuola/primaria/14_giugno_09/filosofia-scuola-elementare-2f6b3c60-efb7-11e3-85b0-60cbb1cdb75e.shtml

sabato 17 maggio 2014

Cervello, Cnr: ciò che vediamo influenzato da visioni precedenti. E' il cervello a fare la media

Lo studio pubblicato su 'Pnas' rivela un meccanismo percettivo secondo cui il presente di cui siamo coscienti è a tutti gli effetti una mediazione di ciò che abbiamo esperito negli ultimi quindici secondi circa. "Senza questa integrazione degli stimoli nel tempo, saremmo ipersensibili alle fluttuazioni visive innescate da ombre, dal movimento e da una miriade di altri fattori"

ROMA - Chi si è accorto che la maglietta di Harry Potter, nel film "L'Ordine della Fenice" cambiava da girocollo a scollatura in una frazione di secondo? E chi ha notato che il croissant di Julia Roberts si trasforma in una frittella nel film "Pretty Woman"? Succede. I ricercatori dell'Università di Firenze e dell'Istituto di neuroscienze del Cnr di Pisa, hanno scoperto i meccanismi cerebrali che ci rendono "ciechi" a piccoli e rapidi cambiamenti - nei film così come nella vita reale -, dipende da una nostra lentezza condizionata. Non ci accorgiamo di improvvisi cambiamenti perché non abbiamo una visione precisa delle quantità.
Lo studio, pubblicato su 'Pnas', suggerisce che il nostro sistema visivo unisce costantemente le informazioni presenti con quelle del passato immediato, così un cambiamento repentino può passare inosservato. "Questi meccanismi servono ad armonizzare la percezione del mondo che altrimenti sarebbe fortemente discontinua", ha detto David Burr, professore della facoltà di Psicologia

all'Università di Firenze e coautore dello studio. "A differenza che nei film, l'ambiente che ci circonda - ha continuato - è sostanzialmente stabile, con pochi cambiamenti improvvisi. Il cervello sembra aver imparato che le cose non cambiano improvvisamente e, se un'informazione attuale non è completamente affidabile, ci si può basare su quello che si è visto prima". 
"La ragione che sottende questo comportamento - ha detto il coautore Marco Cicchini dell'In-Cnr - è che gli apparati sensoriali non sono perfetti bensì contengono, come tutti i sistemi di comunicazione, fluttuazioni casuali e 'rumore di fondo'. Queste fluttuazioni, se registrate, potrebbero essere interpretate come veri e propri cambiamenti nel mondo esterno. Per questo motivo il sistema visivo cerca continuamente di mettere insieme gli stimoli che sono simili tra di loro e di costruirne una sorta di media"

Secondo lo studio, il sistema sacrifica l'accuratezza della singola informazione sull'altare della continuità e della stabilità della percezione. "Nel mondo reale un cornetto non diventa una frittella in una frazione di secondo, quindi il campo di continuità percettiva stabilizza ciò che vediamo nel corso del tempo, portando a una più prevedibile sensazione stabile del mondo", hanno spiegato i ricercatori. "La risposta non dipende solo dall'intensità dello stimolo - hanno aggiunto - ma anche da quella dello stimolo che l'ha preceduto. Se quello precedente conteneva 20 oggetti, uno che ne contiene 30 sembra contenerne meno, circa 25. All'opposto, se lo stimolo precedente conteneva 40 oggetti, quello corrente che ne ha 30 sembra averne 35".

Lo studio rivela un meccanismo percettivo secondo cui il presente di cui siamo coscienti è a tutti gli effetti una media di ciò che abbiamo esperito negli ultimi quindici secondi circa. "Senza questa integrazione degli stimoli nel tempo, saremmo ipersensibili alle fluttuazioni visive innescate da ombre, dal movimento e da una miriade di altri fattori: i volti e gli oggetti potrebbero sembrare trasformarsi da un momento all'altro con un effetto sconvolgente", ha concluso Cicchini.

Argomenti:

ricerche scientifiche

cnr

cervello

visioni

percezioni

università di firenze

stituto di neuroscienze del Cnr di Pisa

giovedì 17 aprile 2014

Creatività - Nuovo e Utile


Ritengo molto interessante condividere questo sito: 
Il sito no profit Nuovo e utile, realizzato da Progetti Nuovi su concept di Annamaria Testa, è online dal 2008. Ordina e mette gratuitamente a disposizione di studenti, ricercatori e imprenditori una quantità di materiali riguardanti teorie, pratiche e applicazioni della creatività.

Nel tempo si è arricchito di moltissimi testi scritti ad hoc, di un’ampia sitografia tematica, di un repertorio di citazioni, di una photogallery… un testo di NeU è stato scelto dal Ministero della Pubblica Istruzione per il tema di maturità 2009. Altri testi, comprendenti una selezione di commenti, sono stati pubblicati in SpotPolitik (Giovanna Cosenza, Laterza 2012) e in Fuori l’italiano dall’Università? Internazionalizzazione e politica linguistica (Accademia della Crusca-Laterza, 2012).
Tutti i materiali di NeU sono pubblicati sotto licenza Creative Commons 2.5.
NeU ha vinto il primo premio Donna è Web 2012 nella categoria Buone Prassi e il primo premio Immagini Amiche 2013 nella categoria Web.

mercoledì 19 marzo 2014

IL RAPPORTO ANVUR La laurea «breve»? Non esiste



Aiuto, ci si è allungata la laurea breve! Altro che i tre anni previsti dalla riforma Berlinguer: per diventare dottori oggi ci vogliono in media 5 anni e un mese. In media. Il che vuol dire che siccome c’è anche chi si laurea in corso (uno studente su tre, per la precisione), gli altri due terzi ci mettono ben di più: sei, sette anni solo per portare a termine il primo ciclo che, per competenze acquisite, non è certo paragonabile alle lauree del vecchio ordinamento. E comunque, pur fuori corso, parliamo di pochi fortunati: il tasso di abbandono è infatti pari al 40%. Sono questi solo alcuni dei dati, i più eclatanti, contenuti nel rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca presentato oggi a Roma dall’Anvur, l’ente di valutazione degli atenei italiani. Vediamoli nel dettaglio.

Matricole allo sbando
Per tre studenti su dieci il primo anno è un anno buttato via: il 15% delle matricole rinuncia del tutto al sogno della laurea; un altro 15% si accorge di aver “toppato” strada ma ci riprova iscrivendosi a un altro corso universitario. Un dato drammatico che mostra la difficoltà del passaggio scuola-università: da qui l’importanza, anzi l’urgenza, di potenziare l’orientamento negli ultimi anni di scuola superiore.

Lauree triennali contro lauree a ciclo unico
In controtendenza, i dati relativi alle lauree a ciclo unico ad accesso programmato, in particolare Medicina. Qui il tasso di abbandono dopo il primo anno è bassissimo (l’8,6%) mentre in facoltà aperte a tutti, ma a basso tasso motivazionale, come Sociologia e Scienze Politiche, si aggira attorno al 20 per cento. Decisamente migliore anche il tempo di percorrenza medio per il conseguimento del titolo a 6 anni (7 anni e 4 mesi) con una percentuale di fuoricorso pari al 33,4% (contro il 42% delle lauree triennali). Un argomento a favore del numero chiuso pensato non già come uno strumento crudele di selezione darwiniana ma come un modo per orientare i ragazzi nella scelta dell’università. Se ti prendi la briga di studiare duro per passare il test di medicina è facile che la tua motivazione (e anche la preparazione di base che hai dimostrato di possedere) ti porti avanti negli studi.

Forbice Nord-Sud
In generale il sistema universitario italiano, come già quello scolastico, si caratterizza per una chiara frattura fra Nord e Centro-Sud. Al Nord ci sono sensibilmente meno abbandoni dopo il primo anno (12,6% contro il 17,5 del Sud) e il percorso è più spedito: «solo» 4 anni e mezzo per la laurea triennale (al Sud ci mettono un anno in più!). Dati speculari per i laureati in corso: al Nord va decisamente meglio (più di quattro su dieci), mentre al Sud sono delle vere e proprie mosche bianche (poco più di due su dieci). Il che spiega, almeno in parte, la fuga dagli atenei del Sud degli studenti meridionali più volonterosi (e con più mezzi): uno su 4 si iscrive in un ateneo del Centro o del Nord.

Lauree magistrali
Solo uno studente su due (il 55%) , terminato il primo ciclo decide si iscriversi alla laurea magistrale, ma anche in questo caso i dati variano moltissimo a seconda del corso di laurea: nel caso di Matematica e Fisica il tasso supera l’80%, il che vuol dire che la laurea triennale è (quasi) carta straccia. Al Sud poi la percentuale è sensibilmente più alta che al Centro e al Nord (60,3% contro 50,9% e 52,5%): il sospetto è che la scelta sia condizionata più che dalla forte motivazione a proseguire gli studi, dalla mancanza di opportunità di lavoro. In generale, gli iscritti alle lauree specialistiche “corrono” di più (in media ci mettono 2 anni e 8 mesi per compiere il percorso biennale) e hanno un tasso di successo maggiore.

Prima e dopo la riforma
Nell’ultimo decennio, dalla riforma Berlinguer in poi, il numero dei laureati è salito considerevolmente, passando da 161 mila nel 2000 a 210 mila (magistrali esclusi) nel 2011. Ma lo scarto con i nostri vicini (e rivali) europei non si è ridotto: 22,3% di laureati tra i 25-34enni contro una media Ue del 35,3%. Nel tentativo di spiegare le ragioni del ritardo italiano il rapporto Anvur si sofferma su due “anomalie” del nostro sistema. Primo, la scarsa attrattività delle nostre università per gli adulti: i cosiddetti immatricolati «maturi», quelli con almeno 25 anni, sono appena l’8% del totale contro un valore Ue del 17% . A disincentivarli, ha contribuito anche il drastico ridimensionamento degli incentivi per gli studenti lavoratori imposto dall’ex ministro Mariastella Gelmini (che ha quasi azzerato la possibilità di riconoscere i crediti formativi maturati sul luogo di impiego). E poi la mancanza di corsi universitari a carattere professionalizzante (la cosa più simile da noi sono le scienze infermieristiche) che altrove, in particolar modo nell’altro grande Paese manifatturiero dell’Unione, la Germania, fanno la parte del leone. Ma, a voler ben vedere, un’altra «anomalia» è quella della spesa pubblica per l’università: il confronto con la media Ocse è impietoso (-3o% in rapporto al numero degli studenti, -37% in rapporto al Pil). Dal 2009 a oggi i tagli ammontano a 1 miliardo. Tra le ricadute più drammatiche, quella sul diritto allo studio. Le borse a favore di studenti privi di mezzo scarseggiano sempre di più: il tasso di copertura è passato dall’86% a un drammatico 69%. E questo sicuramente pesa sul calo (percentuale) di immatricolazioni degli ultimi anni.

Dopo la laurea
Nonostante le difficoltà strutturali e congiunturali, la laurea continua a offrire migliori prospettive occupazionali e migliori guadagni del diploma, anche se il vantaggio relativo è minore che in altri Paesi europei. Un dato interessante, segnalato dal rapporto Anvur, è quello relativo alla differenza fra redditi da lavoro dipendente e autonomo: mentre nel primo caso il vantaggio si attesta per i laureati attorno al 25%, nel secondo si è quasi annullato. Una spiegazione possibile potrebbe risiedere nella forte incidenza di forme di lavoro atipico come collaborazioni e contratti a progetto, particolarmente diffuse nelle professioni intellettuali.

La ricerca
Se già i soldi per l’università son pochi, quelli per la ricerca sono ancora meno. Si è detto e ridetto che a pesare negativamente è soprattutto la scarsità di investimenti privati: un misero 0,52% del Pil, la metà della media europea e lontano anni luce dall’1,8% della locomotiva tedesca. Ma il rapporto ci tiene a sottolineare quanto pesino anche i pochi decimi di punto di scarto fra spesa pubblica italiana e media Ocse (0,52% del Pil contro una media Ocse dello 0,7%). In termini percentuali è pochissimo, ma in termini assoluti corrisponde a tre miliardi di euro, cioè circa un terzo del finanziamento pubblico totale.

Il turnover dei docenti
In chiusura, un ultimo dato allarmante: quello relativo al numero dei professori. Tra il 2008 e il 2013, in seguito al blocco del turnover, il corpo docente (che a partire dalla riforma dei concorsi del 1998 aveva attraversato una lunga fase di espansione) si è ridotto del 15%, tornando sui livelli di inizio anni 2000. Se i docenti manterranno la stessa propensione al pensionamento osservata nell’ultimo anno, tra il 2014 e il 2018 si ritireranno oltre 9.000 docenti di ruolo. Con numeri simili, sarà necessaria l’immissione in ruolo di un gran numero di docenti (circa 1.800 all’anno) a meno di non voler mettere a repentaglio l’assolvimento del carico didattico (e di ricerca) e la tenuta dell’intero sistema universitario.



http://www.corriere.it/scuola/universita/14_marzo_17/rapporto-anvus-laurea-breve-magistrale-ciclo-unico-5-anni-68488ffa-adb9-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml



martedì 11 marzo 2014

Gli studenti italiani e la paura di sembrare secchioni

Pensate a un ragazzo ed una ragazza qualunque, in una classe qualunque, in una scuola qualunque di una città, di una periferia o di un paesino italiano qualunque. La maestra di matematica riconsegna i compiti in classe ed entrambi hanno preso bei voti. Per vantarsi dei propri risultati i due ragazzi possono fare due cose. Possono dire di aver dato una rapida lettura ai libri di testo la sera prima, magari dicendo di averlo fatto mentre guardavano una partita di calcio. Oppure possono dire di aver studiato l’intera settimana precedente, week-end incluso.
Pochissimi ragazzi, oggi, in Italia penserebbero di vantarsi dei propri risultati scolastici (confronta con Pisa in focus 37) mostrando il duro lavoro che è stato necessario per conseguirli, anche se questo fosse vero. Perché tra i ragazzi, e purtroppo non solo tra i ragazzi, vige un modello diverso: è più cool ottenere risultati buoni con il minimo sforzo. Tanto che spesso lo sforzo viene nascosto, mascherato. Perché? Perché sarebbe indice di poche capacità e scarso talento per la matematica. Se un ragazzo deve studiare molto per ottenere buoni risultati, in fondo in fondo – questo è il ragionamento – allora ha poche capacità e propensione per la matematica. Se invece un ragazzo ottiene buoni risultati con il minimo sforzo, vuol dire che ha maggiore intelligenza pura, maggiore propensione per la matematica. Perché per la matematica o si è portati o non lo si è …. Ma è davvero così? No, non è così.
Nuovi risultati dello studio OCSE PISA 2012 che emergono dallo studio degli atteggiamenti degli studenti 15enni nel mondo rivelano che una mentalità che porta gli studenti a dividere il mondo in chi è portato per la matematica e chi non lo è, è perdente. Perché si può imparare solo mettendo impegno, tanto impegno, solo studiando con costanza e perseveranza, e solo se lo studente accetta che si impara sbagliando tante, tantissime volte. E che se c’ è l’ impegno, la matematica si impara, magari non di botto e con un botto, ma giorno dopo giorno. E’ innegabile che ci siano persone più veloci ad apprendere concetti matematici e persone meno rapide e intuitive. Tuttavia: 1) il cervello delle persone è plastico e muta in funzione dell’apprendimento; 2) la velocità può anche un ostacolo perché può portare alla superficialità; e 3) se accompagnato da una mentalità che percepisce l’intelligenza come fissa e immutabile, chi è abituato a risolvere i problemi senza sforzo può bloccarsi alla presenza delle prime difficoltà - che alla fine arrivano per tutti.
A quel punto, invece di mettere impegno per risolvere un problema, chi fino ad allora ha avuto vita facile, potrebbe semplicemente pensare che, in fondo in fondo, non era portato per la matematica, e quindi non vale la pena di sforzarsi. Alla fin fine andare a scuola non è molto diverso dall’ andare al campetto ad allenarsi a calcio o imparare a danzare: si migliora solo con la pratica (c’ è chi dice siano necessarie 10.000 ore di pratica per diventare professionisti – non importa in cosa) e si può imparare sbagliando e divertendosi.

http://www.corriere.it/scuola/secondaria/14_marzo_11/gli-studenti-italiani-paura-sembrare-secchioni-ffd8de3c-a905-11e3-a393-9f8a3f4bf9ce.shtml


martedì 18 febbraio 2014

Plasticità cerebrale


La plasticità cerebrale è la potenzialità del cervello di variare funzione e struttura non solo durante il suo periodo di sviluppo, ma anche durante la vita adulta. Le caratteristiche morfologiche e funzionali dei circuiti nervosi, influenzabili per l’interazione con il mondo esterno, sono molto diverse nel periodo di formazione e di sviluppo delle strutture del sistema nervoso e nel periodo in cui questo raggiunge la maturità. Durante lo sviluppo avviene principalmente una selezione di circuiti neuronali con l’eliminazione di altri, all’inizio ugualmente probabili. Ciò avviene su base genetica e su segnali interni (attività elettrica neuronale e fattori neurotrofici). Durante la vita adulta molti di questi circuiti nervosi rimangono sostanzialmente stabili, o poco influenzati dall’esperienza. Le popolazioni di neuroni continuano invece a mantenere una loro dinamicità mostrando la possibilità di riorganizzarsi, in maniera stabile o transitoria, sotto l’influenza degli stimoli esterni, per rispondere a esigenze particolari, sensoriali o motorie, dell’individuo.

Durante lo sviluppo, il numero di neuroni viene drasticamente ridotto per morte neuronale; successivamente rimane sostanzialmente stabile, mentre gli alberi dendritici, le terminazioni assoniche e le loro connessioni possono subire ancora variazioni. Sia nel sistema nervoso periferico sia in quello centrale, inoltre, sono state descritte variazioni spontanee dei contatti sinaptici. Ogni processo di apprendimento e ogni stato di pensiero, implicano a livello strutturale o funzionale una variazione di qualche circuito nervoso. L’espressione di uso quotidiano «cambiare idea» ha un suo corrispondente neurobiologico ben preciso, e significa «cambiare il proprio cervello».

Plasticità sinaptica. L’attività sinaptica è altamente plastica: si adatta cioè alle necessità fisiologiche e protegge l’SNC dagli effetti della stimolazione eccessiva. L’adattamento può avere luogo a livello sia presinaptico (fusione di vescicole) sia postsinaptico (attivazione recettoriale ed eventi a valle). Una prima regolazione dipende già dal livello del potenziale di riposo nelle rispettive membrane. I neuroni inibitori (abbondanti soprattutto tra i neuroni piccoli, cosiddetti interstiziali), attraverso specifici neurotrasmettitori e relativi recettori, aumentano il potenziale elettronegativo delle membrane neuronali e le rendono così meno sensibili alle specifiche depolarizzazioni indotte, rispettivamente, dai potenziali d’azione e dall’attivazione di recettori stimolatori. Per plasticità si intendono però soprattutto le modifiche di funzionalità che si realizzano in una sinapsi in relazione alla sua stessa attività. A seconda della durata esse si distinguono in plasticità a breve e a lungo termine, cioè in variazioni della risposta che vengono mantenute per pochi secondi oppure per lunghi periodi, fino a diversi giorni. Questi processi, che pure sono transienti, possono modificare significativamente il flusso delle informazioni in un circuito neuronale e avere quindi grande importanza fisiologica.Oggi si studiano le forme prolungate di plasticità, chiamate potenziamento a lungo termine (LTP, Long Term Potentiation) e depressione a lungo termine (LTD, Long Term Depression), rivelate dal persistente aumento o diminuzione della risposta a uno stimolo standardizzato. Riconosciute in numerosi tipi di neuroni glutammatergici, esse sono considerate i meccanismi base per l’immagazzinamento delle informazioni. Per l’induzione di questi processi, la sinapsi deve ricevere una serie di stimoli in rapida successione. Se la frequenza di questi stimoli è alta, per esempio 100 Hz, potrà svilupparsi una LTP, se sarà bassa (inferiore a 10 Hz) si svilupperà una LTD. In questo caso la plasticità non riguarda solo il terminale presinaptico ma la sinapsi nel suo complesso. La stimolazione della struttura postsinaptica da parte del glutammato, con aumento della concentrazione del Ca2+, induce infatti l’immediato invio di un segnale retrogrado, costituito probabilmente dal messaggero gassoso NO (ossido di azoto).L’integrazione temporale dei vari processi di segnalazione bidirezionale permette alla sinapsi di modificare il proprio programma funzionale attivandone uno più (o meno) efficace di quello base, in termini sia di fusione di vescicole (attività presinaptica) sia di ricezione del segnale del neurotrasmettitore (attività postsinaptica). In seguito il programma modificato viene stabilizzato (per giorni) anche grazie a specifiche variazioni dell’espressione genica, e l’informazione stabilizzata può così indurre la comparsa di modifiche anche irreversibili in aree lontane del cervello.

Memoria. Le diverse forme di immagazzinamento mnemonico si accompagnano a differenze nella forza e nella struttura delle connessioni sinaptiche. Sono stati descritti, tanto per i processi impliciti quanto per quelli espliciti (➔ memoria), due tipi di meccanismi di registrazione mnemonica. La memoria breve, che si protrae per alcuni minuti o alcune ore, comporta un’alterazione dell’efficienza delle connessioni sinaptiche preesistenti, determinata dalla modificazione covalente delle proteine preesistenti. Per contro, la memoria a lungo termine, che si protrae per giorni, settimane o anni, si associa alla crescita di nuove connessioni sinaptiche avviata da un programma di espressione genica che può essere indotto dal cAMP e dalla sintesi di nuove proteine.

http://www.treccani.it/enciclopedia/plasticita-cerebrale_(Dizionario-di-Medicina)/


Noi siamo il nostro cervello (Dick Swaab)

Dick Swaab

Dick Swaab è tra i più influenti scienziati olandesi.
È stato direttore dell’Istituto Olandese di Ricerca sul Cervello fra il 1978 e il 2005 e nel 1985 ha fondato la Netherlands Brain Bank (Banca Olandese del Cervello), un archivio dati che ha avuto e ha tuttora l’obiettivo di fornire dati per le ricerche cliniche e neuropatologiche. Dal 1979 è docente di Neurobiologia alla Facoltà di Medicina dell’Università di Amsterdam.
È autore di articoli scientifici. Ha svolto seminari presso la Anhui Medical University a Hefei, la Capital University of Medical Sciences di Pechino e laStanford University. È professore emerito presso il Max Planck Institut für Psychiatrie a Monaco.

Nel 2010 Swaab ha deciso di raccogliere il suo bagaglio di conoscenze in un libro che in Olanda è diventato subito un best seller e in Italia è stato tradotto nel 2011 da Elliot Edizioni con il titolo “Noi siamo
il nostro cervello”. Il libro traccia un quadro ampio e articolato del funzionamento del cervello, affrontando una vasta serie di argomenti, a partire dalla gestazione per arrivare alla fine della vita. In capitoli brevi a carattere divulgativo vengono trattati sia gli aspetti classici – come il funzionamento della memoria, i disturbi neuropsichiatrici, le malattie degenerative – sia le questioni di grande attualità, come l’identità di genere e la transessualità. Nel 1985, infatti, Dick Swaab ha conquistato le prime pagine dei quotidiani internazionali con l’articolo, pubblicato sulla rivista Science, in cui dimostrava l’esistenza di differenze rintracciabili nell’ipotalamo fra eterosessuali e omosessuali.

Noi siamo il nostro cervello
Intervista al neuroscienziato olandese Dick Swaab.

Professor Swaab, la prima parte del suo libro è dedicata allo sviluppo del cervello prima della nostra nascita. Quanto è importante questa fase della nostra vita?
A partire dall’utero materno, e proseguendo nei primi anni dopo la nascita, il nostro cervello si sviluppa ad altissima velocità creando una rete di 100 miliardi di neuroni che si sviluppa per una lunghezza complessiva di 100.000 chilometri. L'unicità del nostro cervello dipende dall’informazione genetica racchiusa nelle nostre cellule e da tutti i fattori che in qualche modo hanno interagito con il nostro cervello durante le fasi precoci dello sviluppo. Per questo motivo la maggior parte dei nostri tratti caratteristici, talenti e limiti, vengono impressi in questa fase precoce della nostra esistenza: dalla personale attitudine a essere persone più attive al mattino o alla sera, al nostro grado di spiritualità, dall’attitudine a diventare nevrotici, aggressivi, anti-sociali, anti-conformisti, alla possibilità di sviluppare malattie mentali come la schizofrenia, l’autismo, la depressione e la dipendenza.
Quanto avviene nel nostro cervello nei primi mesi di vita impone limiti interni che renderanno poi difficile, una volta adulti, modificare identità di genere, orientamento sessuale, aggressività, carattere, religione e lingua d’origine. Quindi la nostra unicità è dominata dal modo in cui il nostro cervello si è strutturato nel tempo. Noi siamo il nostro cervello.

Molti degli argomenti affrontati nel volume hanno a che fare con l’ipotalamo, facendo supporre che questa porzione del cervello sia il fil rouge di tutti i suoi studi. Ce lo conferma?
Direi di sì. L’ipotalamo è una struttura cruciale per la sopravvivenza di un individuo e della sua specie e inoltre svolge un ruolo determinante nella formazione dell’identità di genere e nell’orientamento e nel comportamento sessuale.

Dalle sue esperienze professionali si osserva come la ricerca sul cervello abbia dovuto abbattere forti tabù per poter fare dei passi avanti. Cosa può dirci in proposito?
Quando, con i miei collaboratori, abbiamo riferito della prima differenza riscontrata nel cervello degli uomini omosessuali rispetto a quelli eterosessuali, le reazioni sono state fortemente negative. Anche se ancora non mi sono chiare le ragioni di una risposta così emotiva, credo che il bagaglio lasciatoci dagli anni Sessanta e Settanta, un’epoca in cui si pensava di poter trasformare tutto e che ogni bambino venisse al mondo come un foglio bianco, abbia giocato un ruolo importante.
A distanza di 10 anni, l’uscita su Nature dell’articolo in cui riferivamo della prima inversione di una differenza sessuale nei transessuali, è stato accolto da reazioni soprattutto positive. La scoperta è stata subito utilizzata dai transessuali per ottenere una diversa indicazione del sesso nel certificato di nascita o sul passaporto. Il nostro articolo è stato utilizzato a tale scopo anche presso la Corte europea di giustizia e in Inghilterra ha contribuito alla promulgazione di norme legislative in materia. La società era pronta. Attualmente vengono pubblicati molti articoli sulle differenze che il cervello umano presenta in relazione all’identità di genere e all’orientamento sessuale senza che questo crei sconcerto nella società.

Quale prevede sarà il versante di ricerca che nei prossimi anni evolverà più velocemente degli altri?
Nel mio libro parlo del rapido sviluppo della neuroterapia, la quale prevede per esempio il reperimento di cellule staminali, la terapia genica, la stimolazione cerebrale profonda (Deep Brain Stimulation, DBS), e una serie di dispositivi che mettono in relazione il cervello con un computer esterno, come i sistemi di supporto in caso di disabilità. È bene chiarire ai lettori che si tratta di sviluppi estremamente interessanti che non diventeranno applicazioni cliniche prima della prossima generazione di pazienti. Non creiamo false speranze.

Professor Swaab, lei ha fondato la Netherlands Brain Bank. Quali sono i reali vantaggi di studiare il cervello umano rispetto ai modelli animali?
Da quando 25 anni fa è nata la Netherlands Brain Bank, abbiamo fornito materiale documentato dal punto di vista clinico e neuropatologico a più di 500 progetti in 25 Paesi. Oltre a rappresentare l’intero quadro clinico di una malattia, cosa che i modelli animali riescono a fare in modo parziale, lo studio del cervello umano postmortem ci permette, grazie alle tecnologie dei microarray, di capire in che modo l’espressione genica contribuisce all’insorgenza di queste malattie e di ricavare le informazioni necessarie a individuare i bersagli per nuove e più efficaci strategie terapeutiche. Per esempio, solo grazie al materiale biologico umano abbiamo scoperto che nei transessuali si assiste al rovesciamento delle differenze sessuali a livello dell’ipotalamo. Come avremmo potuto valutare se un animale si percepisce maschio o femmina?

In base alla sua esperienza, quali motivazioni spingono le persone a donare il proprio cervello alla scienza?
Sono entusiaste dell’opportunità di poter contribuire al progresso scientifico; è un gesto di speranza per le generazioni future. Purtroppo, però, mentre i donatori affetti da malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer, non mancano, è più difficile reperire i donatori sani o il materiale biologico di pazienti affetti da depressione, schizofrenia, disturbi alimentari. Una triste constatazione dal momento che con questi ulteriori contributi il progresso nella conoscenza di queste malattie sarebbe certamente più rapido.

Fonte:
Istituto Nazionale di Neuroscienze

lunedì 17 febbraio 2014

Leggo classici, quindi esisto

Leo clásicos, luego existo

Agotado de la urgencia en la comanda laboral o de la fugacidad en los vínculos líquidos, el hombre moderno tiene un arma secreta para ganar una batalla decisiva entre la guerra de la calle y la paz del espíritu: leer a Tolstoi. O a Dostoyevski. O a Cervantes. Que el ánimo se disponga a sumergirse en novelones de mil páginas y decenas de personajes: en los clásicos de la literatura está la "invención de lo humano", según la totémica definición del críticoHarold Bloom.

Ahora, un estudio publicado en la revista Science demuestra que leer los grandes clásicos aumenta la inteligencia emocional y la habilidad social. En épocas de textos a 140 caracteres, un desafío de resistencia para el lector fugaz: si hace unos años un best seller de autoayuda proponía "más Platón y menos Prozac" como la receta filosófica contra el trastorno de ansiedad generalizada, las novelas sagradas aguantan como un bastión de resistencia contra el imperio de lo efímero: un camino para ir en busca del tiempo perdido leyendo tuits o actualizando nuestro "estado" ante el interrogatorio diario del Facebook: "¿Qué estás pensando?".

Las conclusiones del estudio son contundentes: las personas que leen literatura seria tienen mayores niveles de empatía con los demás, percepción sobre los otros e inteligencia emocional.Ahí donde El jugador nos devele el sinsentido de desafiar el destino por medio del azar, o Muerte en Venecia nos advierta de lo inexorable de la decadencia, el lector tendrá una imaginación más fecunda y, sobre todo, una agudeza mayor para el desempeño social:acostumbrado a "tratar" con semejantes personajes, tendrá sus propias interpretaciones sobre la naturaleza humana y será más sensible a los matices de la complejidad de carácter. Lo cual será muy útil en el trabajo o en el amor. Si es cierto que todas las historias posibles ya fueron escritas y que cada nueva aventura es apenas una variación de los clásicos, en una oficina pública el hombre leído podrá reconocer los tormentos burocráticos que someten a un procesado José K. y en cualquier ama de casa insatisfecha, la posibilidad tramposa de una madame Bovary.

Aun en la dispersión que provoca cada "notificación" inútil de las redes sociales, todas con la misma urgencia admonitoria de una citación a la dirección de la escuela (e iguales consecuencias para la vida adulta: nulas), el hombre moderno puede disfrutar a Charles Dickens o Jane Austen con la emoción del reencuentro con un amigo del colegio: que lea de a diez páginas por día. Si quiere, más. Pero nunca menos. En el mismo tiempo que dedica a confirmar si el tema que discutió en el almuerzo es trending topic, podrá obtener los beneficios intangibles de la literatura y conocer a los personajes más fabulosos que hayan pasado por esta Tierra. Recién entonces alumbrará grandes esperanzas de tener, por fin, sensatez y sentimientos.

Harold Bloom: "El valor literario nunca es establecido por un crítico"

A los 82 años continúa siendo una de las figuras más influyentes de la literatura mundial. En esta entrevista reniega de su poder como mandarín cultural, confiesa su predilección por César Vallejo y Gabriela Mistral, afirma que Nicanor Parra merece el Nobel y descalifica el realismo mágico como "un disparate" música clásica se escucha desde afuera. Son las dos de la tarde en New Haven. Cerca de la calle Whitney, en uno de los más bonitos y tradicionales barrios de esta ciudad -sede de la Universidad de Yale-, vive una leyenda de la crítica literaria, Harold Bloom.La belleza de los árboles en el fin del otoño, la rusticidad elegante de su casa, de tres pisos y madera; la puerta sin llave, un auto antiguo en la puerta. La música que lo acompaña siempre. Son presagios de quien está más allá de la puerta, y grita "entre, está abierto", adivinando quién viene, sin miedo a nada.

Se para con su bastón, le cuesta caminar a sus 82 años, y se sienta de nuevo en su lugar favorito, la cabecera de la mesa de comedor, llena de libros, cartas y hojas amarillas de bloc, donde anota sus clases; los poemas que les dará a leer a sus alumnos y su agenda, que maneja con celo. Con un
a mano en el teléfono -no le gusta el mail sino el teléfono- y otra en su lápiz, anota cada compromiso y va revisando sus meses venideros. Aunque ya no tiene la vida vertiginosa de antes, sigue dando clases dos veces por semana. Este semestre brinda un curso sobre Shakespeare, y otro de poesía. Y recibe a sus alumnos durante la semana, en grupos de dos o tres, mientras la energía no se le agota.

Habla lento, pausado, a veces como susurrando, en un inglés perfecto y bien pronunciado, eligiendo cada palabra con precisión. Ofrece té y galletas, lo mismo que les prepara a sus alumnos. Su mujer por más de 50 años, Jeanne, atractiva, elegante, discreta, aparece y saluda. "Voy a dar un paseo", dice y se despide. Bloom se queda mirándola mientras se va.

Nacido en Nueva York y criado en el Bronx, Harold Bloom ha tenido una influencia inusitada en la escena literaria. Ha publicado más de 20 libros, traducidos a más de 40 idiomas, entre ellos La angustia de las influencias , Anatomía de la influencia y Shakespeare: La invención de lo humano . No sólo es uno de los intelectuales que más ha estudiado a Shakespeare, sino también la influencia de éste y otros autores sobre los demás. También, a través de su libro El canon occidental , ha sido figura clave en decidir quién está en el Olimpo literario mundial y quién no. Ganador de la beca para "genios", MacArthur Fellowship, en 1985, es Sterling Memorial Professor de la Universidad de Yale hace 57 años.

-¿Volvería a escoger a los mismos latinoamericanos en su canon occidental?

-No. No. Fue arbitrario. Yo quería escoger a dos autores latinoamericanos escribiendo en español profundamente influenciados por Walt Whitman. Si tuviera que hacerlo de nuevo ahora, probablemente incluiría a César Vallejo, que pienso que es mejor poeta que Neruda. Neruda, en sus mejores momentos, es destacable. Y Borges es un caso muy especial. Sus mejores trabajos no fueron poemas.

-¿Cuáles fueron?

-Esos extraños cuentos, que, a pesar de eso, los encuentro un poco repetitivos. Siguen cierto modelo. Él fue un escritor derivativo. Y tuvo la brillantez de ocultar eso enfatizándolo.

-¿Y qué pasa con Neruda?

-En su mejor momento evoca a Whitman. Pero es infrecuente. Vallejo es más interesante.

-¿Usted conoció a Neruda?

-No, no.

-¿Cómo lo descubrió? ¿Después del Nobel?

-No, ya lo estaba leyendo. Tenía varios amigos que lo leían, incluyendo a uno que lo tradujo.

-Y aparte de Vallejo, ¿algún otro escritor latinoamericano que incluiría en el canon?

-Probablemente Gabriela Mistral. Tiene autenticidad, porque es sombría... lo que es muy bonito. (Piensa un rato, mira por la ventana.) Octavio Paz es probablemente mejor poeta que todos ellos. Paz, en sus grandes momentos, es destacable.

-¿Se conocieron bien?

-Sí, nos conocimos bastante. Gran poeta, hombre muy extraño. Tenía ideas muy raras.

-¿Cómo cuáles?

-Creía en el yoga tántrico.

-¿Cómo lo supo usted?

-¡Él me dijo!

-¿En serio?

-Claro. Se había casado con una señora de la India, y decidió... me ruboriza decir esto, estoy muy viejo . -Sonríe-. Él pensaba que sus ideas sobre yoga tántrico podrían liberar su sexualidad. Muy extraño. Muy mesiánico. Ciertamente un maravilloso poeta. Su libro Sor Juana Inés de la Cruz o las trampas de la fe es maravilloso. Probablemente lo mejor que escribió.

-¿Cuál cree usted que es la contribución de la literatura latinoamericana? ¿Qué piensa, por ejemplo, del realismo mágico?

(Carraspea y mira fijo, moviendo la cabeza) -Al novelista mexicano Juan Rulfo lo encuentro mucho más interesante que al tardío García Márquez o Cortázar. Rulfo era muy interesante. Pero el realismo mágico es un disparate. La idea es tonta. Es la descripción del futuro de la fantasía, que pasa a través de todas las edades y religiones. No fue bueno.

-¿Por qué cree que fue tan exitoso como tendencia en Estados Unidos y Europa?

-Las modas suben y bajan... de la misma manera que los vestidos y faldas de las mujeres suben y bajan... No significa nada. En una perspectiva más larga no importa.

-Pero hizo una gran diferencia en los escritores latinoamericanos que fueron catalogados dentro de esta tendencia.

-Claro, ciertamente les ayudó a tener un público.

-Hablemos de Nicanor Parra, a quien usted ha elogiado ¿Por qué le gusta?

-Bueno, los suyos no son antipoemas, como dicen, son poemas. Son meditaciones, a veces alegres, pero frecuentemente muy plañideras y tristes. Y él tiene mucho autoconocimiento, conoce sus propias limitaciones. Ha tenido muchas experiencias de vida. ¡Quizá unas cuantas mujeres!

-¿Usted ha conocido a Parra?

-No. Hemos hablado por teléfono y cartas.

-¿Usted cree que Parra merece el Nobel?

-No se lo darán, porque Mistral y Neruda lo tuvieron. No creo que premien a un tercer poeta chileno. Pero sí, él se lo merece. Su poesía es vibrante e interesante. Pero no se lo darán.

-Tiene una tradición muy distinta de la de Neruda y Walt Whitman.

-Hay un toque de Walt Whitman. Él me ha dicho que está muy interesado en Whitman... supongo que tradiciones francesas como el surrealismo y el dadaísmo tienen algo que ver con sus inicios. Tiene mucho humor... Pero no le darán el Nobel. Eso es muy malo

A través de su ventana se ve el invierno por venir en Connecticut. El frío que comienza a calar hondo, las ardillas que lo evaden en los troncos, hojas doradas en el suelo y muchas flores. En su mesa, un jarrón de rosas blancas. Y muchos libros, algunos ordenados y reverenciados, otros en total desorden, lo rodean. Mientras habla a veces se toca los ojos, tratando de encontrar las palabras, o quizás espantando la fatiga que lo amenaza siempre. Dice que duerme poco y a saltos, que no tiene mucha energía, que vive exhausto. Sin embargo, nada de eso es coherente con su agenda, que mira en su mano, llena de clases, visitas de alumnos, viajes a Nueva York. Es como si espantara el fantasma del cansancio invocándolo a cada rato.

-¿Cómo se siente ser el más influyente y controvertido crítico de nuestro tiempo, según The New York Times?

-¡No sé de quién estás hablando! -Se ríe.

-Debe ser una enorme responsabilidad...

(Niega con la cabeza) -¡Es ridículo!, es como si yo te dijera: ¿cómo te sientes al ser tú? ¡Es sólo tu vida!

-Pero The New York Times...

-¿Y a quién le importa lo que dicen? Pasados los 80, ya no te preocupas de esas cosas. ¿Para qué?

-¿Cómo ha vivido con ser la voz que decide quién tiene valor literario o no?

-Nadie puede hacer eso. El valor literario nunca es establecido por un crítico particular o un grupo de críticos. El valor literario se establece por generaciones de poetas, novelistas y dramaturgos que han tenido que luchar contra la influencia de escritores particulares, una influencia que consideran ineludible. Y haciendo eso, establecen su valor. Realmente no importa lo que dices de ellos.

-Usted ha sido un crítico muy influyente.

-La única influencia que he tratado de tener o que realmente he tenido es que éste es mi 57o año como profesor. Desde que estuve enfermo, hace cuatro años, ya no doy charlas ni conferencias. Sólo enseño a este grupo de doce jóvenes seleccionados. Vienen aquí uno a uno, o en grupos. Eso es lo único que importa, la influencia en el futuro, pero es impalpable, no se puede saber realmente.

-Usted ha vivido dedicado a la literatura. Si volviera atrás, ¿haría lo mismo?

-¿Te refieres a la misma profesión? Creo que yo, claramente, iba a ser un profesor.

Cuenta que desde joven leía y reflexionaba sobre los poemas. Fue un niño precoz y literario. Pero dice que con los años se ha degenerado su disciplina de estudio. Ha escrito -y mucho- sobre lo que denomina "la escuela del resentimiento", que para él implica que la literatura no se lee desde la literatura misma, sino desde otras disciplinas, como la antropología o los estudios feministas. "Ver la belleza y el poder del lenguaje y el pensamiento ha sido reemplazado por preguntas relativas al género, la orientación sexual, teorías estructurales y posestructurales... y disparates de todo tipo. Ha degenerado en una parte de la ciencia social, así que no estoy seguro de que lo hubiera elegido. Profesor hubiera sido. Quizá me habría convertido en un profesor de historia de las religiones, pero no sé qué habría hecho. Especialmente cuando queda tan poco tiempo."

Dice que quizá no habrá libros impresos de aquí a 20 años. Que el mundo como lo conocemos se está acabando. "Habrá lectores, pero será diferente. Y las universidades también serán diferentes. La persona hablando y la persona escuchando nunca se encontrarán. Cuarenta mil personas a la vez. Ésa no es mi idea ni lo que yo hago. Es todo distinto de lo que he hecho, que he enseñado uno a uno a mis alumnos. ¡Así es que soy un dinosaurio!"

Sus clases son los miércoles y jueves en uno de los edificios más lindos e históricos del campus de Yale. Una gran mesa de madera antigua, rodeada de sillas nobles y antiguas, y un pizarrón del estilo clásico, negro y con tiza blanca. Su docena de elegidos se sienta alrededor, él en la cabecera, y hay un alumno que hace las veces de ayudante, siempre a su derecha. Llega temprano, alrededor de la una, con un bolso azul con sus libros, los textos que se analizarán en clases, una botella de agua y una bolsa Ziploc con nueces. Cada hora hace un pequeño recreo, se levanta con su bastón, camina y vuelve.

Tiene una memoria prodigiosa. Se sabe, desde la segunda clase, todos los nombres de sus alumnos. Los llama " child ", " children ", los trata como hijos o nietos, más bien. Los incita a dar sus opiniones, sus análisis de escritores complejos, como Shakespeare, Whitman, Melville o Emily Dickinson. Sólo cuando los alumnos han hablado bastante, él da su visión. Su palidez contrasta con la firmeza de su voz y sus ideas. Mira hacia el frente y comparte su mirada sobre lo leído, sus anécdotas también, sus cavilaciones acerca de autores que ha estudiado. Cada comentario de los alumnos lo agradece, y los hace leer en voz alta a todos. "Inspira profundamente y lee, Max", dirá, mientras uno de sus alumnos predilectos lee a Whitman o a Dickinson. Max estuvo enfermo algunas semanas, y Bloom le dio clases vía Skype. Cuesta imaginar lo que cuenta el mismo Bloom, que antes fue un profesor severo, capaz de decirle a un alumno que su trabajo era tan malo que no merecía calificación.

-¿Cuánto ha cambiado como profesor?

-Cuando empecé, antes de operaciones de todo tipo, del corazón y otros desastres, hablaba mucho en clases. No podía dejar de hablar. Sentía que tenía tanto que decir... Me tomó muchos años aprender a quedarme callado y escuchar. Ya no tengo esa energía tampoco. Hablo lo menos posible y los estimulo a que hablen ellos. Creo que sólo en los últimos años me he transformado en un buen profesor. Conozco mucho las materias de las que hablo, y sobre todo estoy interesado en mis alumnos, quiero verlos convertirse en sí mismos. No tengo nietos. No tendré nietos. Y algunos de mis alumnos se convertirán en nietos. Quizás debiera haber dejado de enseñar, pero no quiero. Cuando viene el mal tiempo, lo más frecuente es que la clase sea en esta casa. No es fácil.

-¿Qué habla con sus alumnos cuando lo vienen a ver?

-Lo que más hago es escucharlos. Pero no quiero entrometerme en sus vidas personales.

-Pero le pedirán consejos, ¿no?

Yo no tengo sabiduría. Sé donde la puedes encontrar. La puedes encontrar en Shakespeare, Cervantes o Dante, ahí puedes encontrar sabiduría, partes de la verdad. Además, yo estoy más y más consciente de mis propias limitaciones. La vida no funciona deseando mucho algo y obteniéndolo. Con los años ves los monumentos rotos de tus grandes deseos.

-¿Cómo funciona la vida, entonces?

-Simplemente no funciona así... Además, crecí emocionalmente muy despacio. Antes de conocer a Jeanne, me enamoraba cada día de alguna mujer joven. Todo muy confuso. Yo no creo que los remordimientos sean algo bueno para la gente. ¿Tú tienes arrepentimientos? Creo que todos queremos sentir que hemos triunfado en algo, pero yo no siento eso.

-¿Por qué?

-Ni siquiera un poco. A nuestros hijos no les ha ido bien. Jeanne y yo seguimos aquí, pero es porque ella ha sido paciente y sabia. Yo no era ni un buen esposo ni buen padre. Sólo en los últimos años me he convertido en un buen profesor y no tengo ninguna ilusión sobre lo que escribo. Desaparecerá.

-Pero usted ha escrito decenas de libros.

-No importan. En 50 años nadie sabrá quién fui. No es que me afecte. Sólo espero tener unos siete u ocho años más, seguir enseñando, escribir un poco más. Estar en la compañía de Jeanne. Cuando era joven yo tenía sueños de felicidad, como todos. Pero es un juego, eso no pasa. Incluso la gente más talentosa, como Wallace Stevens, no era feliz consigo misma.

Se escucha un ruido en la puerta. "¿David? Entra, hijo." David, alumno brasileño de menos de 20 años, entra y lo saluda. Ayer vino con sus padres a ver al profesor y tocó el piano para todos. Bloom llama a su mujer, le dice que David tocará de nuevo. El joven se sienta al piano, algo intimidado. Harold Bloom permanece sentado frente a la mesa. Jeanne, sonriente y sentada en una silla reclinable cerca del piano, cierra los ojos y escucha..


http://www. http://www.conexionbrando.com/1664160-leo-clasicos-luego-existolanacion.com.ar/1552471-harold-bloom-el-valor-literario-nunca-es-establecido-por-un-critico

domenica 16 febbraio 2014

La battaglia dei filosofi: «Un errore cancellare lo studio del pensiero»

La filosofia è in pericolo. Scuola e università sembrano avviate verso un processo di espulsione della materia: la sperimentazione di un ciclo abbreviato di quattro anni potrebbe portare alla perdita di un anno di insegnamento (due invece di tre) nei licei, mentre in alcuni corsi di laurea, come Pedagogia e Scienze dell’Educazione, la filosofia è uscita dalle tabelle disciplinari. Decisioni che possono rientrare in quell’attacco all’umanesimo che alcuni intellettuali di varia estrazione denunciano, come hanno fatto Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli Della Loggia e Roberto Esposito qualche mese fa con un appello congiunto pubblicato dalla rivista «Il Mulino».
La filosofia dunque sembra essere la prima vittima, ma i filosofi non ci stanno. «È l’errore più grave che si possa fare - commenta Giovanni Reale, filosofo cattolico -. Qualche volta ho sentito pronunciare da alcuni giovani le stesse cose che evidentemente pensa chi propone questi progetti: la filosofia si occupa di problemi astratti che non hanno a che fare con la vita, che appesantiscono la mente. Prevale l’idea che il sapere derivi dalla scienza e che la tecnologia risolva tutti i problemi. Eppure Popper e gli epistemologi hanno spiegato che la scienza per definizione non può avere idee universali e necessarie, ma coerenti con un paradigma dominante in quel preciso momento. La bellezza della filosofia è di poter contenere anche sistem
i opposti, perché le nostre idee non sono definitive».
Reale guarda anche all’estero: «In Francia e Spagna, dove l’hanno quasi eliminata dai licei, se ne sono pentiti. In Germania non c’è la possibilità di un livello intermedio di conoscenza. Un filosofo come Gadamer è capito molto meglio in Italia che in Germania. Una volta mi disse che quando veniva qui si sentiva come in un santuario: tutti quei ragazzi che andavano a sentirlo avevano strumenti di comprensione che in nessun altro Paese avevano».
Anche Giulio Giorello pensa «tutto il male possibile» dell’idea di ridimensionare l’insegnamento della filosofia. «Ma non per difendere la categoria - spiega -. Non penso ai filosofi come professionisti della parola o del pensiero, ma la filosofia è il respiro della mente, Hannah Arendt la definiva “la vita della mente”. Si può farne a meno, ma allora si deve respirare solo con il corpo. Come diceva Vladimir Jankélévitch si può vivere senza filosofia, ma molto male. La riflessione su se stessi e la meditazione sul nostro posto nel modo, quella che si chiama la “libertà filosofica” fa paura agli esponenti della cappa burocratica che mira a normalizzare il pensiero e vuole farci diventare tutti dei mestieranti mediocri».
Gianni Vattimo, che ha insegnato filosofia teoretica a Torino per 25 anni, si sofferma sull’idea di togliere l’insegnamento della materia nei corsi di laurea di Pedagogia e Scienza dell’Educazione: «È un passo verso la disumanizzazione. In generale i Paesi in cui non si insegna la filosofia sono i peggiori. Toglierla dai corsi di laurea in cui si dovrebbe “insegnare come si insegna” è un pessimo segnale. Se penso che si studia la decimologia, la scienza di come si danno i voti, allora preferisco che si studi Gentile». Secondo il teorico del pensiero debole una formazione puramente funzionale alla produzione è da buttare: «Ci ritroveremo una generazione di piccoli produttori legati a saperi specifici che poi velocemente tramontano. C’è invece una formazione che è tanto più significativa quanto più slegata all’uso delle macchine».
Ma a che cosa serve la filosofia? Vattimo scherza, ma non troppo: «Serve a non farsi dirigere nella visione del mondo soltanto dalle canzonette. È una messa in ordine delle idee sulla vita e su noi stessi. Husserl diceva che studiare la filosofia è come fare di professione l’essere umano». Alzi la mano chi non ne ha bisogno.

http://www.corriere.it/scuola/secondaria/14_febbraio_16/battaglia-filosofi-un-errore-cancellare-studio-pensiero-f1397594-96f4-11e3-bd07-09f12e62f947.shtml

mercoledì 5 febbraio 2014

Corsi online, il bilancio 18 mesi dopo: sono le università del futuro o una bolla?

Un’analisi di queste accademie globali della rete. A scuola corsi Mooc gratuiti
e senza profitti, nelle aziende aggiornamento online, di classe e a pagamento.
Università del futuro o nuova bolla online? 

La consacrazione del New York Times o la doccia fredda per i troppi corsi subito deserti? E soprattutto, chi paga e come? In un anno e mezzo sui Mooc (massive open online courses) i corsi universitari gratuiti via internet, si è detto di tutto, che avrebbero risolto miseria e fame nei paesi in via di sviluppo o che avrebbero costretto alla chiusura atenei illustri, dalla Normale di Pisa alla Sorbona e Harvard. Un primo bilancio, come sempre, lascia aperte le speranze di progresso, ma senza dar ragione ai soliti ottimisti del web.
Udacity creata da Sebastian Thrun, l’ideatore dei Mooc ispirato dal pioniere Salman Khan, sembra forse il primo successo nel business. Il sogno utopico di Thrun, una comunità di migliaia di persone con cui condividere gratis il suo sapere su robotica e tecnologia, è stato presto sconfitto dalla realtà, troppo costoso fare di un ragazzo degli slum di Delhi un dottore in fisica quantistica grazie al tablet. E il progetto pilota di Udacity con l’università di San Josè in California, partito alla fine del 2012, rivela che il rendimento degli studenti online è troppo scarso rispetto a quelli che vivono davvero nei campus universitari.
Thrun perde cosí fede nei Moocs spontanei, si converte in manager e studia un progetto che, secondo quanto dichiarato a Fast Company ha l’ambizione di generare nel primo anno 1,3 milioni di dollari: coinvolge la grande azienda di telecomunicazioni AT&T e Udacity diventa una piattaforma dedicata alla formazione professionale dei quadri nelle aziende. All’operazione collabora il Georgia Institute of Technology e, per la prima volta, diventa possibile ottenere una laurea riconosciuta ufficialmente, via Mooc. Ben 2.360 studenti propongono la loro candidatura per il corso in “Computer Science program”, ma solo 375 vengono ammessi alle lezioni, cominciate lo scorso 15 gennaio. I nuovi laureandi digitali hanno in media 11 anni in più degli studenti tradizionali e pagano molto meno: 7mila dollari, contro i 45mila del campus. Fiutata l’aria, Linkedin (www.linkedin.com), il social network dei professionisti, apre alle più importanti compagnie di istruzione online - Coursera, EdX, lynda.com, Pearson, Skillsoft, Udacity e Udemy - e dà la possibilità agli utenti di sfoggiare nel profilo i Mooc completati.
A differenza di Udacity, però, i classici atenei di Boston, Mit e Harvard, non si fanno subito scoraggiare dal basso numero di studenti che completano i corsi online e passano l’esame via il “Mooc provider”, EdX. Un loro rapporto appena pubblicato sulle classi Autunno 2012-Estate 2013 calcola che sui 17 corsi online, 43.196 iscritti hanno ottenuto l’attestato di frequenza finale, 35mila hanno seguito solo metà corso, 300mila, da veri bighelloni digitali, nemmeno una lezione. Successo? Fallimento? Secondo la ricerca Harvard-Mit, non è un fallimento del modello Mooc perché «gli utenti di EdX non sono “studenti” in senso stretto, la registrazione non ha costi, né richiede un impegno, dunque indicatori tradizionali come il tasso di iscrizione o la percentuale di diplomi fanno perdere molte sfumature, come i casi di studenti pur molto capaci che si iscrivono solo per imparare un aspetto specifico del corso e lasciano subito dopo. In un ambiente globale, online e gratuito, bisogna riconsiderare il significato di parole come “studente” e “apprendimento”».
Ma ora anche EdX, oltre alle classi universitarie, scommette sulla formazione professionale, annunciando una partnership con il World Economic Forum - che organizza il grande convegno mondiale di Davos. Attraverso una nuova Forum Academy, il Wef fondato dal professor Klaus Schwab metterà a disposizione di professionisti e organizzazioni il proprio network di eccellenze in campo accademico, politico e manageriale per produrre corsi certificati. Già pronti i primi tre: “Global Technology Leadership”, “Automotive Industry Leadership” e “New Vision for Agriculture”. Insomma anche se non vi invitano tra i Vip di Davos, potete discutere con loro e ascoltarne le idee, almeno online.
In Italia, intanto, sono pochi gli atenei che ha
nno osato mettere piede nel campo ancora incerto dei Mooc: i primi sono stati, su Coursera, La Sapienza, con corsi su archeologia, meccanica quantistica e architettura, e l’università Bocconi, che ha messo in vetrina “Gestione di società di moda e lusso”, “Finanziamento e investimento in infrastrutture” e “Organizzazione internazionale e di leadership”. Hanno puntato, invece sul Mooc provider tedesco, Iversity, l’Università di Firenze, con un corso di Filosofia politica e L’accademia di Belle Arti di Catania, che propone un corso base di design.
La rivoluzione online ha creato molte difficoltà ai vecchi contenuti, dalla musica ai media: l’università almeno avrà il tempo di prepararsi, anche se per ora il quadro sembra chiaro, a scuola corsi Mooc gratuiti e senza profitti, nelle aziende aggiornamento online, di classe e a pagamento. 


http://www.lastampa.it/2014/01/29/tecnologia/corsi-online-il-bilancio-mesi-dopo-sono-le-universit-del-futuro-o-una-bolla-pDvtQgDvcfvzlCNmEUADEM/pagina.html