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lunedì 26 dicembre 2016

Facebook, prenditi una pausa e ti sentirai meglio. Soprattutto a Natale

Se frequentare i social network può avere effetti negativi sull'umore, una settimana di sospensione può bastare per sentirsi meglio. Ma è importante coltivare affetti e attività in modo indipendente. Per non subire gli effetti da astine

LE VACANZE di Natale e il maggiore tempo libero potrebbero portarci a navigare sui social ancora di più di quanto facciamo di solito. Ma se non è un modo per sentire amici e parenti che magari, nonostante le Feste, non riusciamo a incontrare di persona, passare molto tempo su Facebook, potrebbe nuocere al nostro benessere psicologico. E allora potremmo star meglio prendendo una pausa e scegliere piuttosto di fare una passeggiata o di passare più tempo con le persone "reali".

Lo studio. È il consiglio dei ricercatori dell'università di Copenaghen che hanno verificato i benefici di sospendere la frequentazione del social network sul benessere psicologico di oltre 1000 persone, soprattutto donne, e pubblicato i risultati su Cyberpsychology, Behaviour and Social Networking. Rispetto al gruppo di controllo che, durante il periodo dello studio, non ha mai smesso di frequentare Facebook, la sospensione di una settimana ha avuto effetti positivi sul gruppo di volontari in esame, soprattutto donne. In termini di pensieri positivi e soddisfazione nei confronti della propria vita. Effetti tanto più significativi quanto più i volontari erano assidui frequentatori del social network e quanto più questi tendono a provare invidia per le vite altrui.

Natale con i tuoi: il digital detox per le feste

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Parla con i tuoi amici: fai sapere che per le feste sarai ''spento''. Ma dì loro che potranno comunque telefonarti o mandarti messaggi

Parla con i tuoi amici: fai sapere che per le feste sarai ''spento''. Ma dì loro che potranno comunque telefonarti o mandarti messaggi

Togli la Sim dal tuo smartphone. E se proprio devi usarla, mettila in un vecchio telefonino.
Lasciati ispirare, non perdere tempo dietro al telefono: pensa a tutto quello che potresti fare dedicandoti ad altro.
Prova a spegnere tutto: smartphone, tablet, laptop e desktop. Puoi stare senza i device fino alla fine delle feste, basta provare.
Parla con i tuoi amici: fai sapere che per le feste sarai ''spento''. Ma dì loro che potranno comunque telefonarti o mandarti messaggi
Controlliamo lo smartphone in media circa 150 volte al giorno. E trascorriamo 8 ore e 41 secondi con lo sguardo puntato allo schermo. Ecco quattro consigli 'facili' per staccare la spina

fonte: itstimetologoff.com
Invidia e insoddisfazione. Invidia che scaturisce da confronti irrealistici con le vite di parenti e amici, perché fatti sulla base della loro ostentazione di felicità - il più delle volte non così autentica - tra famiglie felici e vacanze perfette. E la stessa passività con cui si trascorrono minuti e ore a osservare la vita degli altri, può aggravare il senso di insoddisfazione per via del fatto stesso di spendere tempo in un'attività poco significativa.

Nelle festività. "Nei periodi delle festività ricorrenti in particolare - puntualizza Giuseppe Lavenia, psicologo e psicoterapeuta, esperto nelle dipendenze da tecnologia - staccare dai social può avere un effetto anche più positivo, perché la ripetizione di stereotipi o la condivisione da parte di amici di particolari situazioni felici che non fanno parte della nostra vita, possono instaurare o aumentare un sentimento di malessere".

Usarlo per quello che è. E se già studi precedenti avevano stabilito un legame tra sintomi depressivi e frequentazione dei social network, il consiglio degli esperti per stare meglio è prendersi pause da questa attività. "Potrebbe bastare un giorno alla settimana di disintossicazione dai social", spiega Lavenia, che prosegue: "Potrebbe anche essere utile scriversi su un foglio di carta le cose che abbiamo fatto e visto lontano da uno schermo, come il viso di nostro figlio o il colore del cielo". Così prendiamo consapevolezza di quello che ci perdiamo della realtà non virtuale che ci circonda, per riappropriarcene, in modo graduale.

L'astinenza. Per quanto riguarda lo studio danese, "occorre tuttavia vedere l'effetto di una pausa più lunga di una settimana - aggiunge Lavenia - perché se staccare da una relazione con i social, come per qualsiasi altra cosa che ci stimola e stressa come il lavoro o la famiglia, può rilassarci momentaneamente, sul periodo più lungo, se non ci siamo costruiti un tessuto sociale o attività al di fuori del mondo virtuale, possiamo andare incontro a situazioni di malessere simili a quelli dell'astinenza".

Allargare gli orizzonti social. E se il social preso in considerazione in questo studio è quello più diffuso e utilizzato, "per studi futuri - concludono i ricercatori - si dovrebbe analizzare l'effetto anche degli altri social sull'umore e di pause più lunghe per vedere se gli effetti positivi della pausa sono duratori o meno".
http://www.repubblica.it/salute/2016/12/22/news/facebook_depressione_natale-154665619/?ref=HRERO-1


venerdì 16 dicembre 2016

La laurea in Italia allarga la mente ma non gonfia il portafogli



«La laurea può allargarti la mente, ma anche gonfiarti il portafoglio». L’Economist - nomen omen - non usa perifrasi. Forse il linguaggio è un po’ brutale, ma il principio sacrosanto. Giusto che un laureato guadagni più di un diplomato. Quando capita il contrario, vuol dire che qualcosa non va. Come a Cuba, dove un medico ospedaliero inchiodato alla miseria dello stipendio statale guadagna meno di una cameriera di un grande albergo che arrotonda con le mance dei turisti. E infatti in tutti i Paesi Ocse, cioè in tutte le economie di mercato rette da un governo democratico, la laurea comporta un significativo vantaggio economico. Che però varia considerevolmente da Paese a Paese.

Il valore aggiunto del titolo di dottore è massimo in Irlanda e negli Stati Uniti, dove i laureati beneficiano anche di un prelievo fiscale basso. La laurea paga bene anche negli ex Paesi del Blocco di Varsavia (Polonia, Slovenia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) che - nota l’Economist - storicamente risentono della mancanza di laureati a fronte di un’alta richiesta di lavoratori qualificati. Mentre funziona meno nei Paesi nordici e nel Benelux (Svezia, Danimarca, Norvegia, Belgio e Olanda) che abbondano di «dottori» e per di più li tartassano.

Italia maglia nera

E in Italia? In Italia, è vero, il prelievo fiscale è molto alto, ma i laureati sono mosche bianche. E non è solo un’eredità del passato: anche fra i giovani dobbiamo accontentarci di un misero laureato ogni quattro 25-34enni: peggio di noi nella classifica Ocse fa solo il Messico. Con così pochi dottori in giro ci sarebbe da aspettarsi un vantaggio economico molto consistente. E invece non è così. Da noi lo scarto nello stipendio fra diplomati e laureati è basso, troppo basso, come ha più volte ricordato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Siamo sui livelli della Norvegia che però ha il doppio di laureati di noi (un giovane su due). Una situazione che si traduce in circolo vizioso: continuiamo ad avere pochi laureati perché l’università è considerata poco attraente e infatti in Italia il tasso di iscrizione degli studenti a un corso di laurea di primo livello è del 37%, molto inferiore rispetto alla maggior parte dei Paesi dell’Ocse.

Laurea, dottorato o master per noi pari sono

Ma c’è di peggio. In Italia non è soltanto la laurea a non pagare il giusto dividendo rispetto al diploma di scuola superiore. Nemmeno il dottorato o il master fanno la differenza. Negli altri Paesi chi decide di fare un investimento ulteriore in istruzione ne ottiene in cambio un sensibile aumento di stipendio. Da noi, invece, laurea o dottorato pari sono. Colpa di un tessuto produttivo fatto di piccole e medie imprese che non sanno valorizzare lavoratori altamente qualificati come chi possiede un Phd. E poi ci si chiede come mai facciano le valigie... Secondo un recente rapporto Istat il 12,9 per cento dei dottori di ricerca vivono all’estero, dove in media guadagnano 830 euro in più dei colleghi rimasti in Italia. E soprattutto hanno un impiego più a misura del loro profilo, visto che da noi invece un dottore di ricerca su 4 (nel caso delle donne, uno su tre) fa un lavoro che non ha nulla a che vedere con l’attività di ricerca e sviluppo.

http://www.corriere.it/scuola/universita/cards/laurea-italia-allarga-mente-ma-non-gonfia-portafogli/quanto-paga-laurea-mondo_principale.shtml




venerdì 25 novembre 2016

FLIPPED CLASSROOM (la classe capovolta)

L’idea-base della «flipped classroom» è che la lezione diventa compito a casa mentre il tempo in classe è usato per attività collaborative, esperienze, dibattiti e laboratori. In questo contesto, il docente non assume il ruolo di attore protagonista, diventa piuttosto una sorta di “mentor”, il regista dell’azione pedagogica. Nel tempo a casa viene fatto largo uso di video e altre risorse e-learning come contenuti da studiare, mentre in classe gli studenti sperimentano, collaborano, svolgono attività laboratoriali. A tutti gli effetti il «flipping» non è tanto un approccio pedagogico, quanto una filosofia da usare in modo fluido e flessibile, a prescindere dalla disciplina o dal tipo di classe. È importante che il tempo ‘guadagnato’ in classe grazie al flipping venga usato in maniera ottimale e che le risorse utilizzate dallo studente nel tempo a casa siano di qualità elevata, oltre ad essere calibrate sul livello di conoscenza fino a quel momento raggiunto dal giovane. Una libreria di contenuti integrata con video online vagliati in base a qualità e accessibilità è il miglior punto di partenza per ottenere un buon risultato finale.

Non serve banda larga, non servono computer, non serve la lavagna interattiva multimediale né le fotocopie. Servono però insegnanti formati, capaci di fare anche i blogger, di lavorare in modo cooperativo. E - cosa non banale – serve che ogni studente abbia a disposizione uno smartphone e una connesione internet quando si trova a casa. Tutto sommato, forse, un obiettivo più raggiungibile che fornire una connessione a circa l'80% delle scuole – tra primarie e secondarie – che ancora oggi ne sono prive.
Sono questi gli ingredienti della "flipped classroom", ovvero la "classe capovolta", una rivoluzione della scuola che non passa per le riforme di sistema ma per la sperimentazione quotidiana degli insegnanti. In Italia la "flipped classroom" fa breccia, visto che dal 2014 (anno di fondazione dell'associazione Flipnet Onlus) a oggi ci sono già 600 insegnanti formati e 120 sezioni di scuola in cui 'ufficialmente' si pratica la didattica capovolta. L'interesse pare destinato a crescere: a Roma la Palestra dell'Innovazione è stata presa d'assalto da docenti arrivati da tutta Italia per assistere al primo convegno nazionale sul tema.
Una didattica inclusiva. "La scuola italiana è una scuola di qualità, soprattutto le scuole dell'infanzia e elementari. Quindi non riformatele: semmai date più soldi per comprare la carta igienica – ha detto il linguista e ex ministro dell'Istruzione Tullio De Mauro – Quando comincia il diasastro? Negli ultimi anni delle scuole superiori. E allora cosa differenzia il primo pezzo dal secondo? Che la scuola primaria è inclusiva, non ci sono bocciati, che utilizza lo spazio per favorire l'interattività dei gruppi e valorizza la dimensione laboratoriale". "La flipped classroom – ha proseguito De Mauro - apre la strada a una didattica inclusiva, in cui gli studenti stanno in classe non per assistere passivi alla lezione, ma per studiare insieme ed essere seguiti individualmente".
Non serve banda larga, non servono computer, non serve la lavagna interattiva multimediale né le fotocopie. Servono però insegnanti formati, capaci di fare anche i blogger, di lavorare in modo cooperativo. E - cosa non banale – serve che ogni studente abbia a disposizione uno smartphone e una connesione internet quando si trova a casa. Tutto sommato, forse, un obiettivo più raggiungibile che fornire una connessione a circa l'80% delle scuole – tra primarie e secondarie – che ancora oggi ne sono prive.
Sono questi gli ingredienti della "flipped classroom", ovvero la "classe capovolta", una rivoluzione della scuola che non passa per le riforme di sistema ma per la sperimentazione quotidiana degli insegnanti. In Italia la "flipped classroom" fa breccia, visto che dal 2014 (anno di fondazione dell'associazione Flipnet Onlus) a oggi ci sono già 600 insegnanti formati e 120 sezioni di scuola in cui 'ufficialmente' si pratica la didattica capovolta. L'interesse pare destinato a crescere: a Roma la Palestra dell'Innovazione è stata presa d'assalto da docenti arrivati da tutta Italia per assistere al primo convegno nazionale sul tema.
Una didattica inclusiva. "La scuola italiana è una scuola di qualità, soprattutto le scuole dell'infanzia e elementari. Quindi non riformatele: semmai date più soldi per comprare la carta igienica – ha detto il linguista e ex ministro dell'Istruzione Tullio De Mauro – Quando comincia il diasastro? Negli ultimi anni delle scuole superiori. E allora cosa differenzia il primo pezzo dal secondo? Che la scuola primaria è inclusiva, non ci sono bocciati, che utilizza lo spazio per favorire l'interattività dei gruppi e valorizza la dimensione laboratoriale". "La flipped classroom – ha proseguito De Mauro - apre la strada a una didattica inclusiva, in cui gli studenti stanno in classe non per assistere passivi alla lezione, ma per studiare insieme ed essere seguiti individualmente".
Usare lo smartphone a scuola. Maurizio Maglione è un insegnante di chimica dell'Istituto Professionale Alberghiero Domizia Lucilla di Roma, ha scritto con Fabio Biscaro il libro La classe capovolta che ha aperto la strada anche in Italia a questa sperimentazione: "Insegniamo in classi spesso sporche, in cui regna l'incuria. Gli strumenti sono pochi, ma non dobbiamo cadere nel gioco del cane che si morde la coda, non ci sono computer o tablet a disposizione per tutti, ma tutti i nostri studenti hanno uno smartphone in tasca. Allora facciamoglielo usare, con l'idea che noi docenti prima di tutto dobbiamo rispondere alla loro domanda: 'ma a cosa servono le cose che ci state insegnando?'". In una "classe capovolta" l'insegnante mette a disposizione degli alunni dei materiali in rete, delle vere e proprie lezioni registrate, che possono essere anche risorse già presenti in internet ("un ragazzo impara certamente moltissimo dalla lettura della Divina Commedia di Benigni", suggerisce ad esempio Maglione) e che vengono studiate a casa di pomeriggio. La mattina, in classe, i ragazzi sono coinvolti in laboratori, lavori di gruppo, che mettono al centro la loro creatività e le loro intelligenze. "Dobbiamo focalizzare molto bene la differenza tra conoscenze e competenze – ha detto ancora Maglione – e cominciare a cambiare noi stessi, come insegnanti, diventando capaci di lavorare in rete, scambiandoci esperienze, proposte. Il circolo del cane che si morde la coda deve diventare virtuoso".
La rivoluzione del world wide web. Ma il ribaltamento della classe prima che tecnologico deve essere culturale, ha sottolineato Paolo Ferri dell'Università di Milano Bicocca, ricordando che quando il tecnico informatico britannico Tim Berners-Lee inventò il world wide web lo fece per le esigenze della comunità scientifica "che sin dal '500 si basa su tre presupposti: i risultati devono essere pubblici, revisionabili e controllabili". Internet, insomma, nasce proprio come strumento della conoscenza, prima di diventare il mezzo di condivisione di qualsiasi cosa. Allora, è il discorso di Ferri, se si assume questo concetto ecco che l'utilizzo della tecnologia non diventa un orpello, ma il presupposto di una "svolta di paradigma" che porta con sé a cascata una rivoluzione: del setting d'aula, della relazione con gli studenti e la famiglia, e anche del processo di valutazione. Che, ha detto Mario Castoldi dell'Università di Torino, "deve smetterla di essere un momento isolato, separato, falsamente oggettivo", ma deve essere incentrato sui processi: la valutazione deve essere giocata nella quotidianità e non nel voto asettico di fine anno.
Sviluppare la creatività. Certo, i passi in avanti da fare sono tanti. Prima di tutto la formazione dei docenti. Ma anche uno svecchiamento culturale: basti pensare che non è mai stata abrogata la circolare che vieta l'uso del telefonino in aula. E poi, la ricerca di connessioni con il territorio. Come la Palestra dell'Innovazione di Roma che – ha ricordato il direttore Alfonso Molina – ha già messo in rete 90 scuole in Italia per supprotarle nella diffusione di una didattica che insegni il pensiero aperto. Perché creativi non si nasce, si diventa.

http://www.repubblica.it/scuola/2015/02/14/news/flipped_classroom_scuola-107238673/

martedì 20 settembre 2016

Le 10 competenze trasversali più ricercate dai datori di lavoro: l'analisi di LinkedIn

Sono chiamate soft skills, e sono le competenze “intangibili” che definiscono ciò che si è, diversamente dalle hard skills che invece definiscono ciò che si sa fare. E oggi le soft skills (in italiano “competenze trasversali”) sono al centro dell’attenzione del mercato del lavoro quale componente essenziale – e addirittura prevalente – del talento professionale che le aziende ricercano e selezionano.

Essere è più importante di sapere
La più recente conferma che essere è spesso più importante di sapere (il sapere si acquisisce, le caratteristiche personali sono più difficili da modificare) arriva da LinkedIn, secondo il quale sono più numerose le aziende che faticano a trovare candidati con le giuste soft skills (59%) di quelle che faticano a trovare candidati con le giuste hard skills (53%). E, dice LinkedIn, il 58% dei responsabili risorse umane è convinto che insufficienti competenze trasversali fra i dipendenti limitino la produttività dell’azienda. Per capire quali sono le soft skills più gettonte LinkedIn ha selezionato sulla propria piattaforma i profili delle persone che nel corso di un anno avevano cambiato datore di lavoro dopo essersi candidate ad almeno una posizione aperta. La ricerca, effettuata sugli iscritti americani, ha portato a individuare 2,3 milioni di profili, dei quali LinkedIn ha poi analizzato le competenze trasversali per individuare quelle più ricercate dai datori di lavoro.

Le competenze più richieste sono quelle fondamentali
Le soft skills più ricercate sono risultate essere comunicazione (capacità di comunicare il proprio pensiero), organizzazione (sapersi organizzare nel proprio lavoro), capacità di lavorare in team, puntualità, pensiero critico, capacità sociali, creatività, capacità di comunicazione interpersonale, adattabilità e carattere amichevole. Una lista che sfata il mito delle competenze “sofisticate”, come possono essere considerate quelle di leadership, analisi, gestione del team: alla fine dei conti, dice LinkedIn, ciò che conta veramente per le aziende sono i fondamentali, cioè dipendenti che sappiano lavorare con gli altri, che siano disponibili e adattabili e che siano in grado di organizzare il proprio lavoro in modo da fare quanto loro richiesto nei tempi richiesti, possibilmente con un certo margine di autonomia (pensiero critico) e apportando un certo valore aggiunto (creatività).

Meno richieste quelle troppo specifiche e poco applicabili
Per contro, l’indagine ha fatto emergere anche le soft skills meno considerate dalle aziende: pianificazione del business, leadership di team multifunzionali, intelligenza emotiva, team building, coaching, management, analisi, gestione del team, scrittura di curriculum e business. Viene il dubbio che queste competenze siano risultate le meno considerate perché espresse in maniera molto generica, laddove skills più sofisticate richiedono anche un’elaborazione maggiore (che tipo di competenza esprime la semplice parola “business”?). Rimane il fatto, conclude LinkedIn, che le aziende ricercano nei potenziali dipendenti prima di tutto le caratteristiche essenziali per avere successo nel posto di lavoro, cioè competenze applicabili a qualunque ruolo, settore o inquadramento. E il suggerimento viene da sé: è sempre bene inserire nel proprio profilo LinkedIn anche le soft skills di base, per quanto “scontate” possano sembrare. - See more at: 

http://www.eventreport.it/stories/mercato/124622_le_10_competenze_trasversali_pi_ricercate_dai_datori_di_lavoro_lanalisi_di_linkedin/#sthash.CtWXPPWw.dpuf

Big-headed babies are brightest



The size of babies’ heads at birth is strongly linked to their future success, with larger head circumferences and brain volume associated with higher intelligence, scientists have found.

The finding is among the first to emerge from data gathered by UK Biobank, in which 500,000 Britons are being studied over the long term to discover the links between their genes, their physical and mental health and their path through life.

A key target for the research is unravelling the complex links between brain function and DNA — one of neuroscience’s great challenges because so many genes are involved.

The finding,…


Pubblicato: http://www.thetimes.co.uk/article/big-headed-babies-are-brightest-pmwgfp0q2

sabato 20 agosto 2016

Come cambia l’apprendimento se lo studio è sui libri o «touch» dai millennials ai nati dopo il 2010

Nella peggiore delle ipotesi a tre anni sanno maneggiare uno smartphone e si destreggiano con un tablet. Ma siamo proprio sicuri che l’apprendimento dei bambini (i cosiddetti nativi digitali) che hanno appena iniziato il loro percorso di studi non contempli ancora gli strumenti di carta, i libri e le enciclopedie che hanno affinato le conoscenze di intere generazioni? Il tema divide gli esperti e lascia aperto il campo a ogni soluzione. Di certo c’è che la scuola - anche quella italiana - si sta aprendo a una serie di trasformazioni e quello delle tecniche e degli strumenti di insegnamento è un argomento centrale nella costruzione del nuovo sistema dell’istruzione.

Sostengono i tradizionalisti che leggere un volume stampato richieda maggiore concentrazione. È quella che in gergo viene chiamata «fisicità del libro» (inteso come oggetto fatto di caratteri stampati e dotato di un suo «spessore»). Ribattono gli innovatori: aprire al digitale significa fornire un ulteriore contributo al plurilinguismo dei bambini. A sostegno dei primi c’è un’indagine condotta nel 2014 dall’università norvegese di Stavanger: affidando la lettura dello stesso racconto a due gruppi di ragazzi, su carta agli uni e su Kindle agli altri, si è scoperto che la memorizzazione è nettamente superiore per chi ha scelto il vecchio libro di carta. «È evidente - riflette Giuseppe Riva, docente di Psicologia dei nuovi media dell’Università Cattolica di Milano - che se un bambino sviluppa il suo apprendimento attraverso la scrittura, quel foglio poi diventerà lo spazio fisico su cui organizzare la sua conoscenza. Se invece l’apprendimento prende forma attraverso “touch” su uno schermo, allora i processi potrebbero essere differenti».

È ancora presto per dirlo, però. Perché Riva tende a tenere separati i cosiddetti «Millennials» dai bambini nati dopo il 2010. «La nuova generazione che sta arrivando sui banchi di scuola - spiega - è quella cresciuta con il tablet in mano. E tuttavia io credo che i volumi e le enciclopedie cartacee siano ancora utili ai bambini perché rappresentano un modo organizzato di sviluppare la conoscenza su temi specifici. Dalla Rete, spesso, arrivano troppe informazioni e non si individuano quelle importanti». Chi non sembra avere molti dubbi al riguardo è lo scrittore Eraldo Affinati, che da tempo ha aperto assieme alla moglie una scuola di italiano per giovani immigrati: «La carta intesa come libro o come foglio sul quale scrivere sollecita meccanismi logici della percezione mentale in qualche modo insostituibili». È un ragionamento, il suo, frutto non di teorie ma dell’esperienza quotidiana maturata tra i banchi della scuola nella quale insegna: «Da noi arrivano molti giovani analfabeti che sanno in qualche modo usare un telefonino. Noi che li addestriamo alla manualità abbiamo notato che la scrittura e la lettura vecchio stile sono un buon metodo per l’apprendimento». E un’altra indicazione in questo senso arriva dagli Stati Uniti: un sondaggio condotto presso librerie e studenti dalla linguista Naomi S. Baron, della American University di Washington, ha dimostrato che gli studenti (seppur di poco più adulti dei bambini delle elementari) preferiscono il libro stampato agli ebook.

Forse è una questione di concentrazione: moltissimi degli intervistati hanno dichiarato di soffermarsi per meno tempo su una pagina digitale rispetto a una cartacea. Paolo Ferri, però, docente di Tecnologie didattiche alla Bicocca di Milano, prova a frenare: «Leggere in digitale produce più vantaggi perché è più economico e permette di avere un archivio più vasto senza occupare molto spazio. Di contro, alcune ricerche sostengono che calcare la mano su un foglio per scrivere contribuisca a un maggiore sviluppo cerebrale».
Il dilemma permane. «Fosse per me abolirei l’uso dei tablet fino a una certa età», azzarda la scrittrice Paola Mastrocola. Chissà se è davvero finito il tempo dei libri scarabocchiati, stropicciati e dei quaderni pieni zeppi di esercizi... Una rivoluzione è in atto, ma nessuno sa quale sarà l’esito finale.

http://www.corriere.it/cronache/16_agosto_20/enciclopedia-ragazzi-edicola-il-corriere-sera-carta-impari-piu-7413238c-66c0-11e6-a871-4e65f9c31faf.shtml

lunedì 18 luglio 2016

Parlare in pubblico


Parlare in pubblico: perché in Italia lo facciamo così male?

Nel nostro paese la capacità di parlare in pubblico è modesta.
Oscilliamo tra sproloquio e afasia, tra aggressività e narcosi, tra esibizionismo narcisistico (appartiene a molti) e sottomessa ritrosia (sì, qualche caso c’è). Non arriviamo mai al punto e, se ci arriviamo, nessuno riesce ad accorgersene. Meniamo il can per l’aia.
Lo so, si tratta di generalizzazioni. Ma mi perdonerete se evito di fare esempi riferiti a singole persone, perché non è questo il punto.

PARLARE, INTERVENIRE, DOMANDARE. E poi: siamo mediamente incapaci di intervenire in modo civile, breve e consistente all’interno di un dibattito. Siamo mediamente incapaci di porre una domanda breve, chiara e circostanziata al termine di una conferenza. Siamo incapaci di rispondere a una domanda in modo specifico, chiaro, breve, esauriente. Ci dimentichiamo che parlare è sì un diritto, ma che parlare in modo decente è un dovere l’inosservanza del quale cancella il diritto.
Il livello generale di prestazione è talmente modesto che non appena un personaggio pubblico riesce a spiccicare quattro parole senza impappinarsi, e perfino se lo fa in modo intrinsecamente deludente (per esempio: ricorrendo a toni enfatici o minacciosi o aggressivi per mantenere l’attenzione dell’uditorio) passa subito per “abile comunicatore”. Ma va’ là.

LO STUDENTE ELOQUENTE. Ha conquistato milioni di visualizzazioni in rete ed è stato ripreso anche da molti quotidiani italiani il discorso sull’importanza dell’istruzione tenuto da Donovan Livingston, studente afroamericano ad Harvard, laureato in storia, due master: uno alla Columbia University ed uno, appunto, ad Harvard, in Educazione. Qui il discorso, e quel che ne dice La Stampa. Qui Il Sole 24Ore.
Il discorso di Livingston è apprezzabile sia per i contenuti sia per la forma espressiva (poetica, musicale ed evocativa) sia per l’energia personale dell’oratore, che tiene assieme forma e contenuti e li esalta.
È il discorso giusto, fatto nel momento giusto, dall’uomo giusto, nel posto giusto.
Non è sorprendente che abbia suscitato tanta attenzione.

Resta invece assai apprezzabile il fatto che un potenziale uomo giusto (cioè un giovane e brillante studente afroamericano, testimone perfetto per un appello a valorizzare l’istruzione come strumento per abbattere barriere) sia stato effettivamente capace di sostenere la propria argomentazione parlando in pubblico in maniera tanto convincente e trascinante. E, notatelo,breve.

LA PATRIA DI CICERONE. Bene. Ora potreste farvi, insieme a me, un paio di domande. La prima è: i nostri studenti italiani, quando escono dall’università, sanno parlare in pubblico? Hanno, almeno, qualche idea di come si fa? I nostri imprenditori, i politici, i docenti, tutte le persone che per ruolo devono confrontarsi con un uditorio, sanno parlare in pubblico? Sanno spiegare, interessare, argomentare?
Eppure, ehi, siamo la patria di Cicerone. Siamo il paese che ha inventato la retorica, intesa come arte del discorrere in pubblico argomentando le proprie opinioni tanto da persuadere chi ascolta. Siamo il paese dove si è cominciato a insegnare la retorica un bel po’ di tempo fa: è successo a Siracusa, nel 460 avanti Cristo (avete letto bene: 2500 anni fa).
Insomma: la capacità di parlare bene in pubblico dovrebbe essere inscritta, se non nel nostro DNA, almeno nella nostra cultura. Sembra però che se ne siano perse le tracce.

Negli Stati Uniti, invece, qualsiasi persona di decente formazione è mediamente capace di fare un discorso breve, sensato, interessante e, se la situazione lo permette, divertente in un’aula, in una sala riunioni, a un pranzo, a un matrimonio o a un funerale. Davanti a una telecamera, lo dico per esperienza, è molto più difficile, ma anche questo si può imparare.

DUE COSE DA SAPERE. La prima cosa da sapere è che un buon discorso in pubblico funziona quando appare naturale, autentico e per certi versi improvvisato. Ma l’improvvisazione è pura apparenza: per ottenere un risultato è necessario prepararsi bene. La stessa cosa accade per la scrittura: il massimo della sensazione di naturalezza per il lettore nasce dal massimo di elaborazione del testo (dunque, per certi versi: dal massimo di artificio).
La seconda cosa da sapere è che non basta ricorrere a qualcuno degli stucchevoli “trucchi infallibili” che vengono ripetutamente citati negli articoli divulgativi sul tema: per esempio raccontare storie o esordire con una battuta di spirito, o mantenere a ogni costo il contatto visivo con la platea. Sempre in rete, ho trovato anche consigli stravaganti: per esempio “prima cammina avanti e indietro sul palco, poi prendi un bel respiro, poi comincia a parlare”. Ma perché mai?

LA PRIMA REGOLA. La prima vera regola è che bisogna parlare solo se si ha qualcosa da dire. Dunque, dovendo o volendo parlare in pubblico è obbligatorio interrogarsi prima sulle informazioni, i concetti e le opinioni che si vogliono trasmettere. Se uno non fa questo non va da nessuna parte. Punto.
Di come trasmettere bene contenuti forti (indispensabili: lo ripeto) vi racconto a breve. E spero che quanto racconto vi tornerà utile.


Possedere e governare le parole

Per saper dire bisogna non solo possedere, ma anche saper governare le parole.
Tutti noi parliamo ogni giorno, perfino troppo, scordando che le parole non sono solamente tratti che appaiono su un foglio o su uno schermo. Suoni che vibrano nell’aria. Segnali (bip, bip, bip) che ci scambiamo perché parlare è nella nostra natura e per ricordare al mondo, e a noi stessi, che esistiamo.
Saper dire significa scegliere, tra tutte le parole che possediamo, quelle esatte, e solo quelle, e metterle in fila in modo accorto, fino a costruire una struttura robusta, coerente e potente. Così le idee prendono forma, consistenza, peso. Le visioni possono essere condivise. Le parole diventano lame che squarciano veli, fari che illuminano notti nere.
Sono pugni nello stomaco. O sono carezze e medicine.

Le parole, lo dico ancora, possono essere strumenti per costruire, armi per combattere, ali per volare. Chi non è in grado di saper dire perché non possiede o non sa governare le parole se ne resta senza strumenti. Senza armi e senza ali.
L’aveva già capito don Milani. Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo domani,diceva ai suoi ragazzi.

La recente vicenda dello stupro di Stanford riguarda anche il possedere e il governare le parole.
Siamo in California, nel campus di Palo Alto. Una giovane donna subisce un’aggressione sessuale. È andata a una festa, ha bevuto, ha perso conoscenza. Si risveglia bendata, insanguinata e dolente su una barella in ospedale. Non ricorda niente. Scopre i dettagli di quanto le è successo solo nei giorni successivi, leggendo le notizie sul telefono.

Il processo si svolge un anno dopo. L’aggressore è uno studente di diciannove anni, campione di nuoto. I reati che ha commesso prevedono pene fino a quattordici anni di carcere. La difesa chiede sei anni. Lui minimizza. Suo padre minimizza. Il suo avvocato minimizza.
Il giudice stabilisce che sei mesi possono bastare.

È l’ennesima storia orribile di una serie infinita. C’è perfino una pagina dell’edizione inglese di Wikipedia dedicata specificamente ai campus sexual assault: il fatto è così ricorrente da essere ritenuto enciclopedizzabile. È l’unico tipo di violenza tra studenti a non essere diminuita dal 1995. Tutti i campus americani ospitano colonnine antistupro.
La maggior parte delle vittime di violenza sessuale (ancora Wikipedia) non denuncia l’accaduto alla polizia o alle autorità perché non lo considera “abbastanza serio” da essere perseguito. Poche righe dopo, la medesima pagina segnala che, se i risultati delle ricerche sugli stupri nei campus venissero presi sul serio, ne verrebbe fuori che in molte università la percentuale di crimini violenti è superiore a quella di qualsiasi città.

Dicevo: l’ennesima storia orribile. Con una variante.
Questa giovane donna parla. Legge davanti al giudice una lunga lettera rivolta al suo stupratore, poi pubblicata in rete, in cui riesce a dire l’indicibile (qui la traduzione italiana).
È una giovane donna istruita e consapevole. Possiede e sa governare le parole. Usa tutte quelle che servono, ma solo quelle.

Le parole che sono visioni, o pugni e lame (e anche quelle che sono carezze, o vere medicine) non sono mai a buon mercato. Uno deve andarle a cercarle dentro se stesso per cavarle fuori a una a una: non riesco nemmeno a immaginare quanto difficile e doloroso sia stato farlo, in questo caso.
Ma le parole difficili e dolorose che questa giovane donna riesce a usare per dire l’indicibile trasformano quello che potrebbe essere un caso tra mille altri nel singolo caso che illumina, rivelandoli nuovamente, tutti gli altri.

What makes the Standford case so unusual, titola The Altantic. Ecco che cos’è, a rendere il caso così inusuale: sono l’enorme potere e la chiarezza di pensiero che le dichiarazioni della vittima rispecchiano.
Questa donna ha superato il lavoro di ogni documentarista, di ogni politico, di ogni giornalista o avvocato, dice Ashleigh Banfield, anchor woman della CNN, che legge la lettera all’interno del proprio programma.
Sono sbalordito per il tuo coraggio. La tua storia sta già cambiando delle vite scrive in una “lettera aperta a una giovane donna coraggiosa” il vice presidente Joe Biden, promotore e sostenitore delViolence Against Wiomen act, la legge americana contro la violenza sessuale. Così, sullo Stanford rape si accendono un’attenzione e un dibattito pubblico che non hanno precedenti. Forse, come si augura Biden, qualcosa comincia a cambiare davvero.

Questa storia è esemplare, terribile ed estrema. Ho fatto fatica a scriverne e, prima, a leggere tutto ciò che era necessario per scriverne. Per favore, non pensate “almeno è andata a finire bene” perché non è così: nessuno stupro “va a finire bene”.
Con il prossimo articolo di questa serie tornerò a raccontare nel dettaglio che cosa significa parlare in pubblico e perché è importante imparare a farlo, e a suggerirvi qualche accorgimento. Ma vi chiedo di non dimenticarvi di questa storia, e del potere che un discorso può avere. È un potere che appartiene non ai politici, ai giornalisti, ai capi, ma a chiunque, e anche a una giovane donna che, stuprata e umiliata, non dimentica di possedere e saper governare le parole.


Parlare a un pubblico: come si fa

Di consigli su come parlare a un pubblico è piena la rete, dai più bizzarri (evitate i latticini!) a quelli in apparenza più ovvi (ricordatevi di respirare). In realtà non tutti i consigli, a parte quelli più ovvi, sono buoni per tutte le persone. E non tutti i trucchi funzionano sempre, perché non tutte le situazioni sono uguali. Dunque, ciascuno dovrà costruire la sua individuale ricetta.
Poiché parlare a un pubblico, però, è un atto di comunicazione, la prima cosa sensata da fare è considerare, applicandoli specificamente al parlare a un pubblico, i criteri generali che rendono efficace un atto di comunicazione.

Già che ci siamo, vi ricordo che il termine “comunicare” viene dal latino cum munire (costruire, legare) e communico (metto in comune). Dunque, considerate che tutte le volte che parlate a un pubblico il vostro obiettivo di base è mettere in comune qualcosa (un’informazione, un’opinione, un’idea o un sentimento) che prima apparteneva solo a voi.

Bene: eccovi ora, più o meno, la definizione di comunicazione che di solito do ai miei studenti, nel primo giorno di corso: comunicare è un processo interattivo di scambio di informazioni tra due o più soggetti in grado di emettere e ricevere segnali e di decodificarli a partire da un codice condiviso.
La definizione può sembrare astratta (sì, lo è), ma vi assicuro che ne derivano conseguenze più che concrete sul come parlare in pubblico.

1) EMETTERE E RICEVERE SEGNALI. Vuol dire che chi comunica (voi) produce segnali verbali (le parole che dite) e non verbali (tutto quanto non è parole: postura, gesti, espressioni, toni…) che devono prima di tutto essere abbastanza percepibili, cioè abbastanza forti e distinti, da colpire adeguatamente il sistema sensoriale degli interlocutori. Insomma: dovete prima di tutto farvi vedere e farvi sentire bene, e se chi vi sta di fronte non vi vede o non vi sente bene la sfida è persa in partenza. Questo fatto elementare spesso viene sottovalutato.

Voce, tono e ritmo. Non parlate sottovoce, o guardandovi la punta dei piedi. Se avete in mano un microfono, tenetelo vicino alla vostra bocca (non all’altezza dell’ombelico!) e non gesticolate con la mano con cui tenete il microfono (l’ho visto fare più di una volta).
Se il microfono è fisso, regolatelo in modo che la distanza dalla vostra bocca sia adeguata: devono essere pochi centimetri. E poi evitate di cambiare posizione.
Se quando parlate preferite stare in piedi e muovervi (io, per esempio, mi sento più a mio agio così) chiedete un microfono da tenere in mano. I microfoni a cuffia tendono a muoversi, quelli da appuntare alla giacca ancora di più, e vi obbligano a passare un cavetto e a fissare una scatoletta sugli abiti.
Se la sala è piccola, fate serenamente a meno del microfono: dovrete parlare a voce un po’ più alta del normale, ma la voce risulterà più naturale e avrete entrambe le mani a disposizione.

Evitate di parlare in modo monocorde. Tenete un ritmo naturale e variato (importantissimo!) articolando bene le parole, specie se state leggendo (ma se non leggete è meglio).
Più la platea è ampia e le persone sono distanti da voi, più vi conviene controllare che la vostra voce arrivi fino in fondo, e accentuare i cambiamenti di tono. E sì: ricordatevi di prendere fiato: le pause servono anche a questo.
Non fidatevi di chi vi dice di par-la-re len-ta-men-te: un oratore lento è noioso. Ma un oratore che affastella parole è incomprensibile. Trovate il vostro ritmo: sarà comunque più lento di quello che usereste parlando normalmente, perché già il fatto di alzare il mento, guardare il pubblico, articolare bene le parole perché siano comprese e tenere un tono più alto vi obbliga a rallentare.
Qualsiasi tipo di voce abbiate, è la vostra e va bene così. Però controllatela e guidatela: la vostra voce è al servizio delle informazioni e del sentimento che volete trasmettere. Restituite, attraverso le pause e l’intonazione, il senso di quel che volete trasmettere.

Gesti, postura, espressioni. Parlando in pubblico, la comunicazione non verbale è tanto importante quanto ciò che dite: rafforza o indebolisce quanto state affermando.
Non siate solo “una voce”. Fate in modo che le persone vi vedano bene in faccia e, se appena potete, alzatevi in piedi per parlare. Se c’è un leggio, non nascondetevici dietro e non aggrappatevici come un naufrago in mezzo all’oceano.
La comunicazione non verbale può anche confermare o smentire quanto state affermando. Per capirci: se esordite dicendo “sono entusiasta di essere qui”, ma avete in faccia un’espressione schifata, state guardando il pavimento e la vostra postura è depressa (spalle curve, braccia penzoloni) state trasmettendo segnali incongruenti. Se c’è contraddizione tra voce e corpo, il pubblico crederà di più, sempre, a quel che dice il vostro corpo che a quello che dite voi.

Se non siete attori professionisti, vi riuscirà difficile tenere sotto controllo la comunicazione non verbale mentre siete lì tutti concentrati su ciò che volete dire. L’unica soluzione è che sappiate benissimo quel che state dicendo, che l’abbiate interiorizzato e che ne siate convinti: solo così il vostro corpo potrà “dire la verità”, aggiungendo la sua propria espressività a quel che voi dite.

2) SCAMBIARE INFORMAZIONI. Un gruppo di segnali (per esempio le parole che dite) è un’informazione solo se ha un senso sia per voi, sia per il vostro pubblico. Se il pubblico non capisce il senso di quel che dite, quella che voi ritenete essere un’informazione dal vostro pubblico verrà percepita come puro rumore. E il vostro discorso risulterà, nel migliore dei casi, inefficace.

Chiarezza, semplicità, struttura. Sia parlando sia scrivendo, se volete comunicare qualcosa, vi tocca sempre calibrare il tipo di parole che usate e il grado di complessità di quel che dite sul livello di competenze del vostro pubblico.
Quando state parlando, l’attenzione a essere chiari è doppiamente importante: se usate codici (parole, concetti) che il vostro pubblico non possiede, verrete sentiti, ma non ascoltati né capiti.
Dunque, le persone devono essere in grado di seguirvi parola per parola: ricordatevi che, a meno che la situazione non sia informale, di solito il pubblico non può interrompere chi sta parlando per chiedere di ripetere una parola o un concetto. Usate parole semplici, frasi brevi. Strutturate quello che state dicendo. Non divagate. Lasciate alle persone il tempo di capire quanto state dicendo. Considerate che una pausa sottolinea ed enfatizza quanto avete appena detto.

Se mentre parlate proiettate testi o immagini, controllate che aiutino a chiarire il senso e che non siano distraenti. Un buon modo per impiegare testi e immagini proiettati è usarli per scandire e segnalare i cambi di argomento, o per ribadire un concetto prima di passare al concetto successivo.
Quando, doverosamente, vi chiedete come parlare a un pubblico, domandatevi in primo luogo come farvi capire dal vostro specifico pubblico.

3) TRA DUE O PIÙ SOGGETTI. Per comunicare bisogna essere (almeno) in due. E per comunicare parlando in pubblico, ci vuole un pubblico. Questo significa che il pubblico, all’interno del processo di comunicazione, è un soggetto tanto importante quanto voi.

Entrare in contatto. Molti suggeriscono di scegliere uno spettatore a caso e di agganciarne lo sguardo. Altri, di saettare la platea di sguardi. Credo che la cosa più importante sia ricordarsi sempre che il pubblico esiste. Che è il motivo per cui siete lì e dite quel che state dicendo. Che ha delle attese e dei diritti (primi fra tutti quelli di capirvi, di non schiattare di noia, di scoprire qualcosa di interessante).
Dunque, non parlate per voi stessi e per il puro gusto di ascoltare la vostra voce. Evitate di pavoneggiarvi. Cercate di mettervi nei panni del vostro pubblico, e fatelo già mentre (cosa altamente consigliata) preparate e provate il vostro discorso.
Un’operazione complessa come parlare a un pubblico è tutt’altro che spontanea. I discorsidevono sembrare naturali, ma sembrano tanto più naturali quanto più e meglio sono stati preparati e interiorizzati.
Dunque: fate mente locale e allenatevi. Pensate a ciò che può risultare piacevole, interessante o emozionante e non fuorviante per il genere di persone che avete di fronte. Dite o fate tutto quanto di lecito o sensato può venirvi in mente per far capire alle persone che state parlando a loro e per loro. Non abusate della pazienza e della benevolenza del vostro pubblico. Non date per scontato che sia necessariamente paziente e benevolo.

4) UN PROCESSO INTERATTIVO. Mentre parlate a un pubblico voi trasmettete informazioni alla vostra platea, ma anche la vostra platea ne trasmette a voi. E (occhio!) si tratta di informazioni sull’andamento della vostra prestazione.

Tempestività e flessibilità. Di norma un applauso è un segnale importantissimo di incoraggiamento, di consenso o di gradimento: dunque, se arriva un applauso, siate grati. Ma non in tutte le situazioni le persone applaudono (o fischiano, o rumoreggiano). Qualsiasi pubblico manda comunque segnali, e vi conviene coglierli, anche se si tratta di segnali deboli: vi aiuteranno ad aggiustare il tiro.
Se le persone vi stanno ascoltando rapite, bene: potete prendervi ancora un po’ di tempo. Se guardano l’orologio o si agitano, o se l’audio è disturbato, o se la sala è calda, affollata, scomoda, o se c’è un ritardo sulla scaletta, siate sintetici: il vostro pubblico ve ne sarà grato. Se fate una battuta e vedete che nessuno ride, evitate di insistere. Se percepite un calo di attenzione, cambiate qualcosa al volo: passate all’argomento successivo. O raccontate un aneddoto. O concludete in fretta.

Dicevo: questi sono criteri generali. Nel prossimo articolo di questa serie metterò in fila alcuni suggerimenti specifici per organizzare e gestire un discorso e per parlare a un pubblico pubblico. Se avete domande, scrivetele nei commenti. Vi risponderò.


Come e perché prepararsi a parlare in pubblico

Chiunque si rivolga non a una singola persona ma a un gruppo di interlocutori sta, in effetti “parlando in pubblico”. Le regole cambiano.
Può succedere di dover parlare in pubblico in modo del tutto estemporaneo, ma non è frequente: di solito si sa da prima che lo si farà. La ricetta per fare un intervento efficace è una sola: bisogna prepararsi, perché quel che si dice è tanto importante quanto il come lo si riesce a dire.
Prepararsi a parlare in pubblico significa fare diverse cose. Ve le elenco.
FATE MENTE LOCALE. Pensate all’ambiente in cui dovrete parlare. È un’aula universitaria in cui discutete una tesi di laurea? È una riunione di condominio? È un convegno? Un comizio? Un matrimonio? Una presentazione a colleghi di lavoro o a un cliente?
Se l’occasione è importante, cercate di andare prima a vedere il posto. Capite com’è l’acustica e se c’è un microfono, dove starete, e a che distanza dal vostro pubblico, se parlerete in piedi o seduti (se potete scegliere: sempre meglio in piedi).
Se ci sono delle consuetudini o dei vincoli, datevi da fare per conoscerli in anticipo. Sapere prima com’è la situazione vi aiuterà a essere più a vostro agio, e questo migliorerà la vostra prestazione. Se appena potete, organizzatevi per poter fare una prova a sala vuota. Anche gli oratori più esperti lo fanno.

COM’È GRANDE IL VOSTRO PUBBLICO? Parlare a diverse centinaia o migliaia di persone è come essere attori su un palcoscenico: dovrete curare in modo speciale anche il tono e il ritmo che usate parlando, i gesti che fate, il vostro linguaggio del corpo. Con ogni probabilità parlerete un po’ più lentamente del solito: tenetene conto quando progettate il vostro discorso.
Parlare a un piccolo gruppo di persone è del tutto diverso: contano di più la vostra espressione e il fatto che riusciate a entrare in contatto visivo (ed emotivo) con ciascuno degli astanti. Potrebbero esserci delle interruzioni o delle domande: non potete ignorarle, e fi toccherà reagire adeguatamente, e senza perdere il filo. Dunque: interiorizzate bene I contenuti che volete trasmettere e la loro sequenza.
Ho visto una volta un oratore politico, peraltro abbastanza smaliziato, parlare in un’aula universitaria con qualche decina di studenti come se fosse a un comizio in piazza: effetto straniante, e pessimi risultati in termini di persuasione.

DA CHI È COMPOSTO IL VOSTRO PUBBLICO? Qual è il suo livello di conoscenza dell’argomento che tratterete? Quali sono le sue competenze linguistiche medie? Rispondere a queste domande vi aiuterà in primo luogo a farvi capire, calibrando in termini di complessità il linguaggio che userete. Per esempio: I tecnicismi sono più che legittimi se parlate a un pubblico di addetti ai lavori, ma sono sconsigliabili con un pubblico generalista, al quale oltretutto vi toccherà ricordare o spiegare elementi che agli addetti ai lavori sono già più che chiari. In questo secondo caso, è bene non dare mai per scontata alcuna conoscenza men che diffusa.

CHI SIETE VOI IN RELAZIONE AL PUBBLICO? Che attese ha il pubblico nei vostri confronti, e in che modo potete soddisfarle, o addirittura superarle?
La posizione di uno studente che presenta la propria tesi davanti alla commissione di laurea è ovviamente diversa quella del docente che spiega in aula, anche se in entrambi I casi il “pubblico” è obbligato a star lì.
Non scordatevi mai chi siete voi e chi sono le persone che vi ascoltano: questo non significa che lo studente dev’essere “umile” e che il prof. può permettersi di essere arrogante. Piuttosto: non conferite a voi stessi e alle vostre parole né più né meno autorevolezza di quella chepuò effettivamente esservi riconosciuta.
Già che ci sono, vi ricordo un fatto controintuitivo: la sfida vera è tenere alta l’attenzione delle persone che vi ascoltano non per scelta, ma perché non possono fare altrimenti.

QUANTO TEMPO AVETE A DISPOSIZIONE? Lo stesso argomento si può decorosamente trattare in quindici minuti, in quattro ore o in un intero corso universitario. È tutta questione di approfondire e aggiungere dettagli, esempi, casi particolari, dati, storie. Sullo stesso argomento, e per sostenere la medesima tesi, si può costruire un tweet che abbia senso, o un libro di mille pagine che abbia senso.
È il tempo che avete a disposizione a decidere quanto approfonditamente potete argomentare le vostre affermazioni e quanto potete essere dettagliati.
In ogni caso, e anche se avete tempo: evitate di divagare e state sul pezzo.
Specie se avete poco tempo a disposizione, fate la scelta di dire pochissime cose, molto chiare. Meglio una singolo forte argomentazione, conclusa e ribadita, che tre argomentazioni affastellate, lacunose e incomprensibili. Meno tempo avete a disposizione, più tempo vi toccherà dedicare a scegliere bene quell che andrete a dire, e a dargli forma.
Non sforate sui tempi e, se il vostro tempo è finito, non mettetevi a parlare a velocità supersonica per riuscire a dire “tutto”: le persone non ricorderanno niente, se non la vostra inadeguatezza.
Mentre provate il vostro discorso col cronometro in mano, siate realisti e non barate sui tempi. Solo se vi fanno segno che state andando bene e che potete proseguire oltre I tempi previsti (a me è successo una singola volta, e me ne ricordo ancora) potete prendervi un po’ più di agio.

LEGGERE, SCORRERE APPUNTI O PARLARE A BRACCIO? Se appena potete, evitare di leggere. Se per qualche motive dovete leggere, vi serviranno un podio con leggio (controllate di non sparirci dietro, e non afferratelo come se fosse la scialuppa che vi salva nella tempesta) e un microfono fisso (che vi ricorderete di regolare prima di cominciare a parlare). Se dovete leggere, alzate il naso ogni tanto, commentando o completando qualche frase. E date un tono a quell che leggete!, altrimenti tutti cadranno addormentati dal flusso monotono delle vostre parole
Una buona via di mezzo, se non ve la sentite di parlare a braccio, è preparare un foglio scritto in grande, con parole e concetti-chiave. Esercitatevi a svilupparli, sempre col cronometro in mano.
Se volete parlare a braccio, chiaritevi benissimo la sequenza degli argomenti. Cercate le parole più semplici e usate frasi brevi per non ingarbugliarvi. Una sequenza di immagini o parole–chiave su un powerpoint possono aiutarvi. Non leggete le schermate di powerpoint, però. Prepararsi a parlare in pubblico è sempre consigliabile, ma in quest’ultimo caso è imperativo.

QUANTO TEMPO INVESTIRE PER PREPARARSI A PARLARE IN PUBBLICO? Tutto quello che serve. E difficilmente sarà poco.
Ricordate che il vostro primo obiettivo è dire qualcosa che le persone siano interessante a sentire, felici di aver ascoltato, ansiose di ricordarsi.



Parlare bene in pubblico, avendo qualcosa da dire

Non ha senso illudersi di saper parlare bene in pubblico senza avere qualcosa di rilevante da dire. Rem tene, verba sequentur (sii padrone del concetto, le parole seguiranno), scrive nelle Orationes Marco Porcio Catone, il primo grande oratore dell’età romana.
L’affermazione non fa una piega. O quasi.
Se è verissimo che bisogna sapere quel che si dice, non è così vero che, quando si sa quel che si dice, poi lo si riesce sempre a dire in maniera chiara (tanto da risultare comprensibili a tutto il pubblico), interessante (tanto da catturare l’attenzione), memorabile (tanto da essere ricordati),convincente (tanto da guadagnarsi la fiducia del pubblico e da risultare persuasivi).

Nei primi quattro articoli di questa serie dedicata al parlare in pubblico abbiamo visto che: (1) questa competenza nel nostro paese non è diffusa quanto dovrebbe, e che (2) saper governare le parole, tanto da trasformarle in pugni o in carezze, aiuta a costruire discorsi capaci di muovere le persone e cambiare le cose.

Poi abbiamo visto che per parlare bene in pubblico è indispensabile (3) tenere a mente le regole di base e i vincoli propri di qualsiasi processo di comunicazione, e i modi peculiari in cui parlando in pubblico quelle regole vanno seguite e quei vincoli vanno osservati.

Infine, abbiamo visto (4) come ci si prepara a parlare in pubblico: facendo mente locale su ambiente e occasione, interrogandosi su dimensioni, composizione e competenze del pubblico, immaginandone le attese, tenendo conto del tempo a disposizione, decidendo se parlare a braccio o a partire da appunti, e valutando i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna opzione.
Ma aver qualcosa da dire resta la condizione necessaria. D’accordo, non è sufficiente. Ma, siccome resta necessaria, eccoci qui a concludere parlando di contenuti. E di come strutturarli.

CHE COSA AVETE DA DIRE? Qual è il messaggio che volete trasmettere, la tesi che volete difendere, l’idea che volete promuovere, l’appello che volete diffondere? Insomma: qual è il succo del discorso? Riuscite a formularlo in breve (e “in breve” vuol dire in una decina di parole)?

Vi suggerisco di fare questo esercizio prima di cominciare a lavorare sul vostro discorso. È meno facile di quel che sembra, perché vi obbliga a scegliere ciò che è davvero importante, scartando tutto il resto. Potreste, per esempio, scoprire che quel che volete dire, ridotto all’osso, non sta in piedi (e forse allora vi conviene investire qualche tempo per mettere a fuoco le idee). Oppure potreste scoprire che per dar conto di tutto quello che vorreste dire vi servono molte più parole (e allora forse vi conviene istituire una gerarchia di concetti o di temi, e concentrarvi sul principale: quello da cui derivano, o attorno al quale ruotano, tutti gli altri).

L’esercizio che vi ho proposto è utile anche per un altro motivo. Riesco a raccontarvelo con un esempio. Immaginate che il tema sia (appunto) parlare in pubblico. Conoscete già la mia tesi in proposito. Ma ecco: provo a sintetizzarla in quattro modi diversi:
– Parlare bene in pubblico è importante. Imparare si può.
– Parlare in pubblico: non sparatele grosse, prendete la mira.
– Come fare discorsi efficaci e potenti catturando il pubblico.
– L’unico vero trucco per parlare bene in pubblico è prepararsi.

Da queste sintesi escono, sul medesimo tema, discorsi un po’ diversi tra loro: più focalizzato sulle tecniche e i vantaggi del parlare bene in pubblico il primo. Più attento alla prestazione dell’oratore e al suo rapporto con la platea il secondo. Più orientato alla componente persuasiva il terzo. Più polemico nei confronti delle innumerevoli liste di trucchi per parlare in pubblico che si trovano in rete il quarto. Insomma: la sintesi vi dà conto dell’argomento e del taglio del vostro discorso. Solo quando entrambi gli elementi vi sono chiari e vi sembrano convincenti potete continuare.
Già che ci sono, vi dico che scrivendo questa serie di articoli avevo in mente qualcosa di molto simile alla prima delle quattro sintesi.

Una volta che avete capito bene che cosa andrete a dire, cominciate a prendere appunti. Li riordinerete man mano che la struttura del vostro discorso prende forma e si consolida, integrando, togliendo o aggiungendo elementi se vi sembra necessario farlo, fino a costruire un sommario. Ehi: non limitatevi ad ammucchiare concetti: riordinate e togliete tutto quanto è superfluo. Considerate che, del vostro discorso, il pubblico catturerà e ricorderà pochi elementi: meglio che siano quelli importanti.

CHE PAROLE USERETE? Concluso il sommario, metterete in fila le parole: scrivete il vostro discorso, se intendete poi leggerlo. Attenzione: il vostro discorso andrà detto nel modo più naturale possibile. Usate frasi brevi se no rischiate di restare senza fiato. Lasciate a voi stessi la possibilità di aggiungere qualche parola a o un breve commento estemporaneo, alzando il naso verso il vostro pubblico.

Per esempio, non scrivete:
Non sarà mai sottolineata a sufficienza l’importanza del parlare bene in pubblico, ampiamente sottovalutata nel nostro paese a tutti i livelli, a cominciare dall’istituzione scolastica che a livello formativo trascura le complesse competenze legate all’oralità evoluta a favore di quelle legate alla parola scritta.
Ehi! È astratto! È cacofonico (sufficienza/importanza/competenze)! Non vi permette di riprendere fiato! Non è musicale, e c’è un sacco di roba inutile! Ripete due volte una parola (livelli, livello) chenon è una parola-chiave!

Provate a scrivere, invece, qualcosa come:
Parlare bene in pubblico è importante. Qui in Italia non ce ne rendiamo conto. A scuola impariamo a leggere e a scrivere, ma non impariamo a parlare in maniera efficace.
Se provate a leggere a voce alta entrambe le frasi in corsivo vi accorgete della differenza.

Se (molto meglio!) intendete parlare a braccio, appuntatevi frasi e parole-chiave, e soprattutto i modi in cui transiterete il più naturalmente possibile da un argomento all’altro. E cominciate a fare delle prove. Provate a voce alta, anche se vi sembra strano e fastidioso. Vi aiuterà a familiarizzare con il suono della vostra voce, a cui di solito non fate caso. A tenere sotto controllo ritmi e pause. A controllare i tempi.
Il sommario che avete preparato è anche la base per preparare un buon powerpoint, se avete deciso di usarlo. È un lavoro in più da fare.

COME COMINCIATE ? Come il decollo e l’atterraggio per un aereo, l’esordio e la conclusione del vostro discorso sono due momenti critici per la qualità complessiva della vostra prestazione. Anche se molti lo consigliano, non è detto che dobbiate esordire con una battuta o una storiella. In certe situazioni si può fare, in altre è sconsigliabile. Inoltre, certi oratori riescono ad esordire con una battuta in modo plausibile e accattivante, e altri proprio non ce la fanno (devo ammettere di appartenere a questa seconda categoria).

Se è il caso (per esempio, a un convegno) esordite salutando e ringraziando brevemente: basta qualche parola, e poi entrate in argomento. Oppure entrate subito in argomento. Cominciate con un’affermazione forte, che anticipi e incornici quello che andrete a raccontare, aiutando le persone a orientarsi fra le vostre parole.

RACCONTARE E ARGOMENTARE. Discorrendo, avrete dei fatti da raccontare o delle idee da esporre. Siate chiari e date tutte le informazioni necessarie a far sì che il pubblico vi segua senza fatica. Evitate le digressioni inutili. Se un fatto, un’idea, un passaggio logico sono importanti, trovate il modo di sottolinearli (gesti, voce, pause) e di ribadirli. Siate concreti: fate esempi. Offrite dei dati, se ce ne sono (ma arrotondate le cifre e non perdetevi nei decimali). Siate vivaci, ma non enfatici.

Se i fatti e le idee sono il “che cosa”, le argomentazioni sono il “perché”. Potete prima esporre i fatti, e poi argomentarli esprimendo le vostre opinioni e le vostre tesi in proposito. O potete far seguire ciascun fatto e ciascuna idea dalla sua interpretazione argomentata. La cosa importante è che l’esposizione sia lineare, resti vivace e e sia tanto breve quanto è possibile, senza sacrificare comprensione e pathos. Abbiate senso della misura e del ritmo (che varierete, se no la gente si addormenta. Anche un discorso tutto strillato e concitato è noioso, esattamente come un discorso tutto sussurrato e lento). A proposito di pathos: spesso una metafora è più illuminante di una lunga, e noiosa, argomentazione astratta. Se volete approfondire, date un’occhiata qui.

Un discorso è anche fatto della musica delle parole. Alcune strutture retoriche (per esempio, laripetizione nelle sue molte forme) sono amiche dell’oratore. Usatele, ma senza esagerare con gli effetti speciali.

CONCLUDETE BENE. Del vostro discorso le persone si ricorderanno poche cose, e una di queste è con ogni probabilità la conclusione. È un motivo ulteriore per essere brevi, così vi resta tutto il tempo necessario per concludere senza dover accelerare in modo innaturale mentre qualcuno tra il pubblico comincia a dar segni di insofferenza e il moderatore, se c’è, vi guarda storto.
Se parlare bene significa in primo luogo farsi capire dal pubblico, concludere bene vuol dire portare dalla vostra parte un pubblico che vi ha capito: ricapitolate i punti salienti, come se riassumeste un viaggio che avete appena fatto tutti insieme. Ribadite, con altre parole, la vostra tesi.

La conclusione è anche il momento in cui potete (sempre con misura, e in modo congruente con la situazione) mettere un accento sulla parte emozionale di quanto state affermando. Infine: non dimenticatevi si salutare e ringraziare. Anche un semplice “grazie” può bastare, se lo dite in modo convincente e senza fissarvi la punta delle scarpe.

IMPREVISTI. Una volta, mentre stavo parlando in una sala, è caduto un pezzo di lampadario. Per fortuna non ha colpito nessuno. Mi sono interrotta, ho aspettato che la gente si ripigliasse, e quando tutti si sono tranquillizzati ho ripreso con un breve commento sull’accaduto. Ve lo dico per suggerirvi di non ignorare quanto succede di fronte a voi, ma di inserire quanto vi accade intorno nel vostro discorso. Se non lo fate, sembrate marziani.

PREPARATEVI. PREPARATEVI. PREPARATEVI. Tutti i grandi oratori all’inizio erano pessimi oratori, dice Ralph Waldo Emerson. I buoni discorsi non si improvvisano.
A proposito di parlare bene: Kennedy, che non è certo un novellino, impiega due mesi per mettere insieme il breve, notissimo discorso d’insediamento concludendo il quale dice “non chiedetevi che cosa il vostro paese può fare per voi, ma che cosa voi potete fare per il vostro paese” (a proposito di strutture retoriche amiche dell’oratore: questo è un chiasmo).

American Rhetoric raccoglie i 100 discorsi più importanti della storia degli Stati Uniti. Potreste dargli un’occhiata seguendo sì le argomentazioni, ma osservando anche come sono costruiti. Sono tutti stati fatti da gente che davvero ha “qualcosa da dire”, e che riesce a dirlo in modo indimenticabile.

mercoledì 6 luglio 2016

(EEG) è possibile predire quanto velocemente un adulto possa imparare una seconda lingua.

Secondo una recente ricerca, pubblicata su Brain and Language e condotta all’Università di Washington, registrando per 5 minuti l’attività cerebrale a riposo per mezzo dell’elettroencefalogramma (EEG) è possibile predire quanto velocemente un adulto possa imparare una seconda lingua.

Introduzione

Lo studio è stato finanziato dal U.S. Office of Naval Research, che ha fondato il programma chiamato Operational Language and Cultural Training System (OLCTS), nel tentativo di rendere il personale militare capace di comunicare in una lingua straniera dopo appena 20
ore di lezione.
Per capire come è stato possibile rintracciare questa correlazione, è bene spiegare prima la metodologia impiegata dai ricercatori.

Avvalendosi dell’analisi quantitativa dell’elettroencefalogramma (qEE), è possibile convertire la registrazione elettrofisiologica dal dominio del tempo (time domain) al dominio delle frequenze (frequency domain). Così facendo, si ottengono delle bande di frequenza, corrispondenti all’attività cerebrale cognitivamente rilevante per il compito che prendiamo in esame. Sebbene sia chiaro che le differenti bande partecipano alle funzioni di un unico network cerebrale, il ruolo di ognuna all’interno di un complesso compito cognitivo (ad es., esprimersi in una lingua straniera) rimane un’area di ricerca aperta. Riguardo i compiti linguistici, alcuni studi hanno evidenziato il ruolo del ritmo della banda beta (13-30 Hz) e della banda theta (4-8 Hz); ciò non stupisce se si comprende che entrambe le bande sono implicate nella codifica e nel recupero mnestico.

Lo studio

Scopo di questo studio era quindi indagare la relazione tra l’attività a riposo del cervello, evidenziata dalle bande di frequenza dell’EEG, e la predisposizione ad acquisire più o meno velocemente una lingua straniera.

L’esperimento in questione ha coinvolto 19 adulti con età compresa tra 18 e 31 anni, senza alcuna precedente nozione di lingua francese, e prevedeva che essi sedessero con gli occhi chiusi e venisse registrata per 5 minuti l’attività cerebrale a riposo per mezzo di una cuffia EEG. Precedenti ricerche, infatti, avevano rintracciato come l’efficienza e la sincronizzazione cerebrale fossero caratteristiche stabili presenti nei soggetti più dotati nell’acquisire nuove lingue; gli indici qEEG sono infatti altamente ereditabili e predittivi della performance ad una grande varietà di test cognitivi. Sulla base di tali premesse, i soggetti partecipavano ad un corso virtuale ed intensivo di francese di 30 minuti a seduta erogato due volte la settimana presso il laboratorio dell’università, per un periodo complessivo di 8 settimane.

Esso si componeva di una serie di scene e storie in aggiunta ad un software di riconoscimento vocale in grado di correggere la pronuncia del soggetto. Per assicurarsi che i partecipanti mantenessero l’attenzione sul corso, i ricercatori impiegavano dei quiz tra una lezione e l’altra, che permettevano al soggetto di accedere alla lezione successiva a patto di aver totalizzato un determinato punteggio al test precedente. Al termine delle 8 settimane, ogni soggetto svolgeva una verifica sulla base delle lezioni completate.

L’articolo prosegue dopo il video:

I risultati

Le registrazioni EEG hanno rivelato che i pattern di attività cerebrale correlati ai processi linguistici erano fortemente relati al ritmo di apprendimento dei partecipanti. Tuttavia la predisposizione ad acquisire una nuova lingua non è così indispensabile, afferma la dott.ssa Chantel Prat, ricercatrice presso l’Institute of Learning & Brain Sciences. Infatti, la varianza spiegata dall’attività cerebrale risultava pari al 60%, valore che lascia perfettamente spazio ai fattori ambientali, modificabili dall’individuo stesso.

Per tale motivo, variabili come la motivazione dell’individuo risultano determinanti nell’acquisire una nuova lingua. In aggiunta, Prat sottolinea che l’attività a riposo del cervello è influenzabile da svariati training di neurofeedback – i cui effetti sono oggi oggetto di studio presso il laboratorio dell’Università di Washington. Infatti, ad oggi la specificità di tali training sulle capacità di apprendimento linguistico è bassa; l’obiettivo del team della dott.ssa Prat è quindi indagare quelle differenze individuali che maggiormente influenzano l’apprendimento di una nuova lingua, al fine di sviluppare training più efficaci.


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2016/05/pattern-cerebrali-apprendimento-nuova-lingua/

martedì 26 aprile 2016

La lingua che parliamo influenza la personalità e modella il cervello

La nostra visione del mondo è profondamente condizionata, fra l’altro, dal linguaggio che usiamo per esprimerci. L’idioma madre viene oggi correlato anche ad atteggiamenti che ne sembrerebbero lontani, come la propensione al risparmio o il senso di colpa

di Elena Meli

La capacità di comunicare attraverso un linguaggio parlato e scritto, strutturato e complesso, è la caratteristica che più ci distingue dagli altri animali. Non solo: il linguaggio è in grado di “modellare” il nostro cervello, le convinzioni e gli atteggiamenti cambiando il modo di pensare e agire. Essere madrelingua inglese, cinese, o russo ha effetti diversi sull’architettura del pensiero, stando a un numero sempre più nutrito di studi. Succede perché ogni lingua pone l’accento su elementi diversi dell’esperienza, forgiando così un modo specifico di vedere il mondo.
Le parole e il substrato culturale

In parte dipende dalle influenze culturali, come spiega Jubin Abutalebi, neurologo cognitivista e docente di neuropsicologia dell’Università San Raffaele di Milano: «La parola che indica uno stesso oggetto in lingue diverse può acquistare sfumature differenti, che dipendono dal substrato culturale specifico». In cinese “drago” rimanda non solo a un animale fantastico e pauroso ma soprattutto a un simbolo di fortuna, forza, saggezza: inevitabilmente un cinese “vedrà” in modo diverso da un occidentale perfino un essere del tutto irreale. Accadrà lo stesso a un bilingue: per un anglo-cinese il drago sarà meno spaventoso che per un inglese. «La visione culturale sottesa alle pa
role di lingue differenti può influenzare chi conosce più di un idioma — sottolinea Abutalebi —. Il cervello, dovendo processare lingue con una semantica varia, associa ai singoli concetti elementi tratti dai linguaggi che conosce. In genere poi chi padroneggia più lingue è più curioso nei confronti delle culture legate agli idiomi conosciuti e questo facilita una maggior apertura e una visione diversa delle cose. Il modo di pensare e relazionarsi col mondo rimane immutato solo se una lingua viene imposta, perché in questo caso si mette in atto una resistenza a qualsiasi “commistione” culturale».
La madrelingua resta il vettore della morale e dell’etica

L’influenza del linguaggio sul nostro Io è tuttavia ancora più profonda, con effetti sorprendenti perfino sulle decisioni coscienti: uno studio su PLOS Oneha dimostrato che quando ci esprimiamo in una seconda lingua tendiamo ad avere meno remore morali. I partecipanti all’esperimento pubblicato su PLOS One infatti accettavano di sacrificare una persona per salvarne cinque - facendo una scelta “utilitaristica”- più spesso se veniva loro chiesto nella seconda lingua rispetto a quando dovevano esprimere il loro parere in madrelingua: in questo secondo caso prevaleva infatti il divieto morale a uccidere. «Un idioma che non sia appreso dalla nascita è meno influenzato dalle emozioni perché mentre lo si parla si deve esercitare un controllo cognitivo maggiore per “spegnere” la madrelingua, che resta il vettore della morale, dell’etica, dei sentimenti», commenta Abutalebi. Il linguaggio appreso in culla è anche quello che più modula la nostra struttura mentale.
Chi parla una lingua senza numeri non sa far di conto

E la lingua può perfino modulare l’attitudine al risparmio come ha scoperto l’economista Keith Chen dell’Università di Los Angeles: i cinesi, che non hanno un tempo verbale preciso per indicare il futuro, hanno una propensione a mettere da parte i soldi del 30% maggiore rispetto a chi parla lingue più “definite” forse perché «identificare linguisticamente il futuro in modo distinto dal presente lo rende più lontano, motivando meno a risparmiare», ha spiegato Chen. Si è scoperto che pure indicare il genere delle parole incide sulla visione del mondo: uno studio su bambini ebrei e finlandesi ha rivelato che i primi si accorgono in media un anno prima di essere maschi o femmine anche perché la loro lingua assegna quasi sempre il genere alle parole, mentre in finlandese non accade. In alcuni casi gli effetti di un idioma sono ancora più curiosi: Lera Boroditsky, dell’Università di Stanford, ha verificato che nella lingua della tribù Piraha, in Amazzonia, non esistono lemmi per indicare i numeri ma solo i termini “pochi” o “tanti”. Risultato, i Piraha non sanno tenere conto di quantità esatte.
Forse Shakespeare aveva torto: ciò che chiamiamo rosa non profumerebbe così tanto, se la chiamassimo con un altro nome.
Con i numeri serve un maggiore «sforzo cognitivo»

Riguardo alla matematica: i numeri si “pensano” nella lingua che sentiamo come primigenia perché, come spiega il neuropsicologo Jubin Abutalebi, «la matematica attiva circuiti cerebrali diversi da quelli del linguaggio e chiama in causa un maggior “controllo”. Da un certo punto di vista è simile alla grammatica, la parte del linguaggio più influenzata dal periodo di apprendimento dell’idioma: nei bilingui tardivi ad alta padronanza, quelli cioè non distinguibili dai madrelingua anche se hanno appreso la seconda lingua non in contemporanea alla prima, una mappatura cerebrale rivela una maggiore attivazione delle aree di controllo esecutivo durante compiti di grammatica, mentre in caso di compiti lessicali o semantici l’attivazione è identica a quella di un bilingue precoce. Per padroneggiare la grammatica delle lingue apprese dopo l’infanzia serve perciò uno sforzo cognitivo maggiore».
Da Carlo Magno a Noam Chomsky

Si dice che Carlo Magno abbia detto: «Conoscere una seconda lingua significa possedere una seconda anima». Ne era convinto anche il linguista americano Benjamin Lee Whorf che, nel 1940, postulò la teoria secondo cui il linguaggio plasma il cervello al punto che due persone con lingue differenti saranno sempre cognitivamente diverse. Tale tesi passò di moda con gli studi di Noam Chomsky, che negli anni ‘60 e ‘70 propose la teoria di una “grammatica universale”, ovvero basi generali comuni per tutti i tipi di linguaggio. A partire dagli anni ‘80, però, alcuni studiosi hanno iniziato a rivalutare Whorf, depurando la sua teoria dagli eccessi: così oggi sappiamo che, al di là di fondamenta concettuali simili, ogni linguaggio sottende una sua “visione del mondo” e la infonde, almeno in parte, in chi lo parla. Un esempio è il senso di colpa e di giustizia: in inglese se un vaso si rompe si sottende sempre la presenza (e quindi la responsabilità) di qualcuno, in spagnolo si tende a dire che il vaso si è rotto. Secondo alcuni proprio da questo dipende la tendenza anglosassone a punire chi trasgredisce le regole, più ancora che risarcire le vittime.

http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/16_febbraio_26/lingua-influenza-personalita-modella-cervello-95a1f04a-dc83-11e5-830b-84a2d58f9c6b.shtml?cmpid=SM_CorriereNazionaleEngagementAprile_fp_facebook_undefined_cpc_EngagementNazionaleAprile&refresh_ce-cp



lunedì 18 aprile 2016

La fatica di leggere è reale

La fatica di leggere è reale.
Per questo il piacere della lettura è una conquista preziosa. Lo è perché leggere arricchisce la vita. E lo è doppiamente proprio perché leggere è anche un’attività del tutto innaturale. I lettori esperti tendono a sottovalutare questo fatto. O se ne dimenticano.
Comunicare è naturale. Come ricorda Tullio De Mauro, la capacità di identificare, differenziare e scambiarsi segnali appartiene al nostro patrimonio evolutivo e non è solo umana: la condividiamo con le altre specie viventi, organismi unicellulari compresi.

L’INNATURALE FATICA DI LEGGERE. Leggere, invece non è naturale per niente. Ed è faticoso. La fatica di leggere è sia fisica (i nostri occhi non sono fatti per resta
re incollati a lungo su una pagina o su uno schermo) sia cognitiva: il cervello riconosce e interpreta una stringa di informazioni visive (le lettere che compongono le parole) e le converte in suoni, e poi nei significati legati a quei suoni.
Poi deve ripescare nella memoria il significato delle singole parole che a quei suoni corrispondono, e a partire da questo deve ricostruire il senso della frasi, e dell’intero testo. Tutto in infinitesime frazioni di secondo, e senza pause.
È un’operazione impegnativa, che coinvolge diverse aree cerebrali e diventa meno onerosa e più fluida man mano che si impara a leggere meglio, perché l’occhio si abitua a catturare non più le singole lettere, ma gruppi di lettere (anzi: parti di gruppi di lettere. Indizi a partire dai quali ricostruisce istantaneamente l’intera stringa di testo). Un buon lettore elabora, cioè riconosce, decodifica, connette e comprende tre le 200 e le 400 parole al minuto nella lettura silenziosa.

LA LETTURA SILENZIOSA DI SANT’AMBROGIO. La stessa lettura silenziosa è una conquista recente. Greci e latini leggevano compitando il testo a voce alta, o sussurrando. Quando il giovane Agostino di Ippona va a trovare sant’Ambrogio, che è un gran lettore, resta talmente colpito dal fatto che legga in silenzio da registrarlo, poi, nelle Confessioni: «Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente.»

MPARARE A LEGGERE. La lettura silenziosa si afferma, secondo gli studiosi, solo nel 1600: appena quattro secoli fa. E la diffusione della reale capacità di leggere è ancora più recente, specie nel nostro paese: nel 1861, anno dell’unità d’Italia, gli analfabeti sono quasi l’80 per cento della popolazione, con punte del 90 per cento e oltre in Sardegna, Calabria e Sicilia. Un’intensa opera di scolarizzazione riduce gli analfabeti totali a meno del 13 per cento della popolazione nel 1951.

TRA DOVERE E VOLER LEGGERE. Ma oggi, e a dirlo è l’Ocse, il 69 per cento degli italiani è ancora sotto il livello minimo di competenza nella lettura necessario per vivere in un paese industrializzato. Se questo è il dato di base, non deve stupire che il 58 per cento degli italiani dai sei anni in su non abbia spontaneamente (cioè non per obbligo scolastico o lavorativo) aperto neanche un libro negli ultimi 12 mesi, manuali di cucina e guide turistiche comprese.
Tra saper decifrare un testo semplice, si tratti di un sms o di una lista della spesa, e saper agevolmente leggere e capire un testo di media complessità al ritmo di centinaia di parole al minuto c’è un abisso.

MOTIVARE A LEGGERE. Prima di interrogarsi sulle strategie per colmarlo bisognerebbe, credo, farsi un’altra domanda: che cosa può motivare le persone che leggono poco a leggere di più (e, dunque, a imparare a leggere meglio? In altre parole: che cosa compensa davvero la fatica di leggere?
Bene: sapete (ne abbiamo già parlato) che le motivazioni più forti sono quelle interne, o intrinseche (sentirsi bravi, capaci, appagati) Le motivazioni esterne (o estrinseche) come premi e punizioni, voti scolastici compresi, funzionano meno.

LA FATICA DI LEGGERE E IL SUO COMPENSO. C’è, credo, un’unica cosa che può pienamente compensare l’innaturale fatica di leggere, ed è il piacere della lettura: il gusto di lasciarsi catturare (e perfino possedere) da una storia, o il gusto di impadronirsi di un’idea, una prospettiva, una competenza nuova attraverso un testo. È il piacere di sentirsi appagati, o migliori.
Ma è un piacere difficile perfino da immaginare finché non lo si sperimenta, arduo da evocare e raccontare (non a caso molte campagne in favore delle lettura lasciano il tempo che trovano. Non tutte, però) e impossibile da imporre.

LEGGERE A VOCE ALTA, AI PICCOLI (E NON SOLO). Per questo, credo, è così tremendamente importante leggere a voce alta ai bambini più piccoli. È l’unico modo per renderli partecipi del piacere della lettura prima ancora di sottoporli alla fatica di leggere. Se sanno qual è la ricompensa e l’hanno già apprezzata, affronteranno più volentieri la fatica. E, leggendo, a poco a poco poi se ne libereranno.
Ho però la sensazione che l’assai sottovalutata lettura a voce alta possa conquistare ai libri anche gli studenti più grandi, e perfino qualche adulto.
Ma gli insegnanti e gli addetti ai lavori sono per forza di cose lettori più che esperti, ormai estranei alla fatica di leggere. A loro, l’idea di regalare un po’ del (contagioso!) piacere di leggere a chi non sa sperimentarlo attraverso la lettura ad alta voce può sembrare un’idea strana, antiquata o bizzarra. Eppure a volte le idee antiquate o bizzarre danno risultati al di là delle aspettative. Prometto di tornare a breve sull’argomento.

giovedì 14 aprile 2016

Metacognizione: pensare il pensiero

Metacognizione è una parola interessante.

Rimanda a un concetto ancora più interessante, che riguarda un’attività interessantissima. Peccato che sia la parola, sia il concetto, sia l’attività risultino meno frequentati di quanto dovrebbero.

Provo a rimediare.

La parola, prima di tutto. Unisce la preposizione greca ‪μετα- (che significa, tra le altre cose e in questo caso, “oltre, dopo”) e il termine cognizione, che sta per conoscenza, o per complesso di informazioni e conoscenze.

La parola metacognizione viene impiegata in ambito specialistico, psicologico o educativo ed è poco diffusa: se la cerco con Google trovo solo 52.000 risultati. Se cerco metafora i risultati sono più di 7 milioni. Se cerco metabolismo sono più di 19 milioni.

Metacognizione indica una capacità che è, per quanto ne sappiamo, esclusiva degli esseri umani: quella di auto-osservare la propria attività di pensiero e di riflettere sui propri stati mentali.

In altre parole: esercitare la metacognizione vuol dire pensare a come e perché stiamo pensando proprio quello che stiamo pensando, nel modo in cui lo stiamo pensando.

È, dicevo, un esercizio interessante.

I primi studi sulla metacognizione, che risalgono alla fine degli anni ’70, riguardano i processi inconsci attivati dagli studenti migliori: quelli che sono in grado di risolvere problemi in modo efficace e di sviluppare un pensiero indipendente e che, nella sostanza, sanno “guidarsi da soli” nello studio. Individuano due grandi ambiti della metacognizione:

– il saper distinguere i diversi processi mentali: percepire quanto esiste o accade intorno a noi, focalizzare l’attenzione su singoli elementi, ragionarci sopra, ricordare.

– il capire come si svolgono questi processi: cioè che cosa succede nella nostra mente quanto percepiamo, o quando stiamo attenti a qualcosa, o quando pensiamo a qualcosa, o quando ricordiamo qualcosa. Questo ci aiuta a valutare l’efficacia di ciascun processo, a orientarlo e a migliorarlo.

Oggi sappiamo che i bambini possono esercitare forme rudimentali di pensiero metacognitivo già attorno ai 3 anni, che questa capacità cresce molto entro i 6 anni e che può essere migliorata evocandola, diventandone consapevoli ed esercitandola.

Il sito Edutopia ci conferma che la metacognizione può essere sviluppata anche negli studenti più giovani, e che un buon modo per iniziare è proprio definire il termine “metacognizione”, illuminandolo con una metafora semplice come “prendere la guida del proprio cervello”.

Altri suggerimenti interessanti per addestrare gli studenti alla metacognizione si trovano sul sito dell’associazione di educatori ASCD. Eccone alcuni: accendere l’attenzione non solo su che cosa, ma su come gli studenti stanno imparando. Condividere gli obiettivi di apprendimento con gli studenti. Pensare “ad alta voce”, in modo da permettere agli studenti di comprendere le strategie di pensiero “esperte” dell’insegnante e di farle proprie. Oppure incoraggiare gli studenti a riflettere su come si sono organizzati per ottenere un determinato risultato.

Una rassegna degli studi sulla metacognizione a cura di Pearson, il maggior gruppo editoriale del mondo nel campo dell’educazione, ci offre qualche altra informazione notevole. Per esempio: tutti noi possediamo teorie tacite sul modo in cui ragioniamo, ma non ci facciamo caso, spesso non ne siamo neanche consapevoli, non le organizziamo in un sistema strutturato e quindi non ne traiamo alcun vantaggio.

E ancora: la metacognizione è connessa sia con la capacità di esercitare il pensiero critico (analizzare i dati, valutarli, prendere decisioni), sia con l’apertura mentale e quindi con la creatività. E poi: la metacognizione è connessa anche con la motivazione, cioè con l’energia interiore che ci spinge a fare le cose nella consapevolezza che, se ci applichiamo, riusciremo a farle bene. Ne abbiamo parlato di recente anche qui, su NeU.

Tutto questo ci dice che sviluppare la metacognizione può essere importante a scuola, e non solo a scuola. Dopotutto, conoscere meglio i nostri processi di pensiero significa conoscere meglio noi stessi, le risorse che possiamo mettere in campo, i punti di forza e di debolezza. E poter imparare a usare meglio tutte le nostre risorse.

Credo che, anche da adulti, valga le pena di coltivare la metacognizione. Per esempio, interrogandosi sul perché si fanno certe scelte (ehi: interrogarsi è diverso dal rimuginarci sopra!), o sugli elementi a partire dai quali si affrontano problemi o si formulano giudizi.

Ma anche leggere romanzi, guidandoci a conoscere i pensieri, le motivazioni, le scelte dei personaggi, può aiutarci a scoprire qualcosa in più del nostro pensiero non solo come lettori, ma come esseri umani (quasi sempre) pensanti.