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lunedì 18 luglio 2016

Parlare in pubblico


Parlare in pubblico: perché in Italia lo facciamo così male?

Nel nostro paese la capacità di parlare in pubblico è modesta.
Oscilliamo tra sproloquio e afasia, tra aggressività e narcosi, tra esibizionismo narcisistico (appartiene a molti) e sottomessa ritrosia (sì, qualche caso c’è). Non arriviamo mai al punto e, se ci arriviamo, nessuno riesce ad accorgersene. Meniamo il can per l’aia.
Lo so, si tratta di generalizzazioni. Ma mi perdonerete se evito di fare esempi riferiti a singole persone, perché non è questo il punto.

PARLARE, INTERVENIRE, DOMANDARE. E poi: siamo mediamente incapaci di intervenire in modo civile, breve e consistente all’interno di un dibattito. Siamo mediamente incapaci di porre una domanda breve, chiara e circostanziata al termine di una conferenza. Siamo incapaci di rispondere a una domanda in modo specifico, chiaro, breve, esauriente. Ci dimentichiamo che parlare è sì un diritto, ma che parlare in modo decente è un dovere l’inosservanza del quale cancella il diritto.
Il livello generale di prestazione è talmente modesto che non appena un personaggio pubblico riesce a spiccicare quattro parole senza impappinarsi, e perfino se lo fa in modo intrinsecamente deludente (per esempio: ricorrendo a toni enfatici o minacciosi o aggressivi per mantenere l’attenzione dell’uditorio) passa subito per “abile comunicatore”. Ma va’ là.

LO STUDENTE ELOQUENTE. Ha conquistato milioni di visualizzazioni in rete ed è stato ripreso anche da molti quotidiani italiani il discorso sull’importanza dell’istruzione tenuto da Donovan Livingston, studente afroamericano ad Harvard, laureato in storia, due master: uno alla Columbia University ed uno, appunto, ad Harvard, in Educazione. Qui il discorso, e quel che ne dice La Stampa. Qui Il Sole 24Ore.
Il discorso di Livingston è apprezzabile sia per i contenuti sia per la forma espressiva (poetica, musicale ed evocativa) sia per l’energia personale dell’oratore, che tiene assieme forma e contenuti e li esalta.
È il discorso giusto, fatto nel momento giusto, dall’uomo giusto, nel posto giusto.
Non è sorprendente che abbia suscitato tanta attenzione.

Resta invece assai apprezzabile il fatto che un potenziale uomo giusto (cioè un giovane e brillante studente afroamericano, testimone perfetto per un appello a valorizzare l’istruzione come strumento per abbattere barriere) sia stato effettivamente capace di sostenere la propria argomentazione parlando in pubblico in maniera tanto convincente e trascinante. E, notatelo,breve.

LA PATRIA DI CICERONE. Bene. Ora potreste farvi, insieme a me, un paio di domande. La prima è: i nostri studenti italiani, quando escono dall’università, sanno parlare in pubblico? Hanno, almeno, qualche idea di come si fa? I nostri imprenditori, i politici, i docenti, tutte le persone che per ruolo devono confrontarsi con un uditorio, sanno parlare in pubblico? Sanno spiegare, interessare, argomentare?
Eppure, ehi, siamo la patria di Cicerone. Siamo il paese che ha inventato la retorica, intesa come arte del discorrere in pubblico argomentando le proprie opinioni tanto da persuadere chi ascolta. Siamo il paese dove si è cominciato a insegnare la retorica un bel po’ di tempo fa: è successo a Siracusa, nel 460 avanti Cristo (avete letto bene: 2500 anni fa).
Insomma: la capacità di parlare bene in pubblico dovrebbe essere inscritta, se non nel nostro DNA, almeno nella nostra cultura. Sembra però che se ne siano perse le tracce.

Negli Stati Uniti, invece, qualsiasi persona di decente formazione è mediamente capace di fare un discorso breve, sensato, interessante e, se la situazione lo permette, divertente in un’aula, in una sala riunioni, a un pranzo, a un matrimonio o a un funerale. Davanti a una telecamera, lo dico per esperienza, è molto più difficile, ma anche questo si può imparare.

DUE COSE DA SAPERE. La prima cosa da sapere è che un buon discorso in pubblico funziona quando appare naturale, autentico e per certi versi improvvisato. Ma l’improvvisazione è pura apparenza: per ottenere un risultato è necessario prepararsi bene. La stessa cosa accade per la scrittura: il massimo della sensazione di naturalezza per il lettore nasce dal massimo di elaborazione del testo (dunque, per certi versi: dal massimo di artificio).
La seconda cosa da sapere è che non basta ricorrere a qualcuno degli stucchevoli “trucchi infallibili” che vengono ripetutamente citati negli articoli divulgativi sul tema: per esempio raccontare storie o esordire con una battuta di spirito, o mantenere a ogni costo il contatto visivo con la platea. Sempre in rete, ho trovato anche consigli stravaganti: per esempio “prima cammina avanti e indietro sul palco, poi prendi un bel respiro, poi comincia a parlare”. Ma perché mai?

LA PRIMA REGOLA. La prima vera regola è che bisogna parlare solo se si ha qualcosa da dire. Dunque, dovendo o volendo parlare in pubblico è obbligatorio interrogarsi prima sulle informazioni, i concetti e le opinioni che si vogliono trasmettere. Se uno non fa questo non va da nessuna parte. Punto.
Di come trasmettere bene contenuti forti (indispensabili: lo ripeto) vi racconto a breve. E spero che quanto racconto vi tornerà utile.


Possedere e governare le parole

Per saper dire bisogna non solo possedere, ma anche saper governare le parole.
Tutti noi parliamo ogni giorno, perfino troppo, scordando che le parole non sono solamente tratti che appaiono su un foglio o su uno schermo. Suoni che vibrano nell’aria. Segnali (bip, bip, bip) che ci scambiamo perché parlare è nella nostra natura e per ricordare al mondo, e a noi stessi, che esistiamo.
Saper dire significa scegliere, tra tutte le parole che possediamo, quelle esatte, e solo quelle, e metterle in fila in modo accorto, fino a costruire una struttura robusta, coerente e potente. Così le idee prendono forma, consistenza, peso. Le visioni possono essere condivise. Le parole diventano lame che squarciano veli, fari che illuminano notti nere.
Sono pugni nello stomaco. O sono carezze e medicine.

Le parole, lo dico ancora, possono essere strumenti per costruire, armi per combattere, ali per volare. Chi non è in grado di saper dire perché non possiede o non sa governare le parole se ne resta senza strumenti. Senza armi e senza ali.
L’aveva già capito don Milani. Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo domani,diceva ai suoi ragazzi.

La recente vicenda dello stupro di Stanford riguarda anche il possedere e il governare le parole.
Siamo in California, nel campus di Palo Alto. Una giovane donna subisce un’aggressione sessuale. È andata a una festa, ha bevuto, ha perso conoscenza. Si risveglia bendata, insanguinata e dolente su una barella in ospedale. Non ricorda niente. Scopre i dettagli di quanto le è successo solo nei giorni successivi, leggendo le notizie sul telefono.

Il processo si svolge un anno dopo. L’aggressore è uno studente di diciannove anni, campione di nuoto. I reati che ha commesso prevedono pene fino a quattordici anni di carcere. La difesa chiede sei anni. Lui minimizza. Suo padre minimizza. Il suo avvocato minimizza.
Il giudice stabilisce che sei mesi possono bastare.

È l’ennesima storia orribile di una serie infinita. C’è perfino una pagina dell’edizione inglese di Wikipedia dedicata specificamente ai campus sexual assault: il fatto è così ricorrente da essere ritenuto enciclopedizzabile. È l’unico tipo di violenza tra studenti a non essere diminuita dal 1995. Tutti i campus americani ospitano colonnine antistupro.
La maggior parte delle vittime di violenza sessuale (ancora Wikipedia) non denuncia l’accaduto alla polizia o alle autorità perché non lo considera “abbastanza serio” da essere perseguito. Poche righe dopo, la medesima pagina segnala che, se i risultati delle ricerche sugli stupri nei campus venissero presi sul serio, ne verrebbe fuori che in molte università la percentuale di crimini violenti è superiore a quella di qualsiasi città.

Dicevo: l’ennesima storia orribile. Con una variante.
Questa giovane donna parla. Legge davanti al giudice una lunga lettera rivolta al suo stupratore, poi pubblicata in rete, in cui riesce a dire l’indicibile (qui la traduzione italiana).
È una giovane donna istruita e consapevole. Possiede e sa governare le parole. Usa tutte quelle che servono, ma solo quelle.

Le parole che sono visioni, o pugni e lame (e anche quelle che sono carezze, o vere medicine) non sono mai a buon mercato. Uno deve andarle a cercarle dentro se stesso per cavarle fuori a una a una: non riesco nemmeno a immaginare quanto difficile e doloroso sia stato farlo, in questo caso.
Ma le parole difficili e dolorose che questa giovane donna riesce a usare per dire l’indicibile trasformano quello che potrebbe essere un caso tra mille altri nel singolo caso che illumina, rivelandoli nuovamente, tutti gli altri.

What makes the Standford case so unusual, titola The Altantic. Ecco che cos’è, a rendere il caso così inusuale: sono l’enorme potere e la chiarezza di pensiero che le dichiarazioni della vittima rispecchiano.
Questa donna ha superato il lavoro di ogni documentarista, di ogni politico, di ogni giornalista o avvocato, dice Ashleigh Banfield, anchor woman della CNN, che legge la lettera all’interno del proprio programma.
Sono sbalordito per il tuo coraggio. La tua storia sta già cambiando delle vite scrive in una “lettera aperta a una giovane donna coraggiosa” il vice presidente Joe Biden, promotore e sostenitore delViolence Against Wiomen act, la legge americana contro la violenza sessuale. Così, sullo Stanford rape si accendono un’attenzione e un dibattito pubblico che non hanno precedenti. Forse, come si augura Biden, qualcosa comincia a cambiare davvero.

Questa storia è esemplare, terribile ed estrema. Ho fatto fatica a scriverne e, prima, a leggere tutto ciò che era necessario per scriverne. Per favore, non pensate “almeno è andata a finire bene” perché non è così: nessuno stupro “va a finire bene”.
Con il prossimo articolo di questa serie tornerò a raccontare nel dettaglio che cosa significa parlare in pubblico e perché è importante imparare a farlo, e a suggerirvi qualche accorgimento. Ma vi chiedo di non dimenticarvi di questa storia, e del potere che un discorso può avere. È un potere che appartiene non ai politici, ai giornalisti, ai capi, ma a chiunque, e anche a una giovane donna che, stuprata e umiliata, non dimentica di possedere e saper governare le parole.


Parlare a un pubblico: come si fa

Di consigli su come parlare a un pubblico è piena la rete, dai più bizzarri (evitate i latticini!) a quelli in apparenza più ovvi (ricordatevi di respirare). In realtà non tutti i consigli, a parte quelli più ovvi, sono buoni per tutte le persone. E non tutti i trucchi funzionano sempre, perché non tutte le situazioni sono uguali. Dunque, ciascuno dovrà costruire la sua individuale ricetta.
Poiché parlare a un pubblico, però, è un atto di comunicazione, la prima cosa sensata da fare è considerare, applicandoli specificamente al parlare a un pubblico, i criteri generali che rendono efficace un atto di comunicazione.

Già che ci siamo, vi ricordo che il termine “comunicare” viene dal latino cum munire (costruire, legare) e communico (metto in comune). Dunque, considerate che tutte le volte che parlate a un pubblico il vostro obiettivo di base è mettere in comune qualcosa (un’informazione, un’opinione, un’idea o un sentimento) che prima apparteneva solo a voi.

Bene: eccovi ora, più o meno, la definizione di comunicazione che di solito do ai miei studenti, nel primo giorno di corso: comunicare è un processo interattivo di scambio di informazioni tra due o più soggetti in grado di emettere e ricevere segnali e di decodificarli a partire da un codice condiviso.
La definizione può sembrare astratta (sì, lo è), ma vi assicuro che ne derivano conseguenze più che concrete sul come parlare in pubblico.

1) EMETTERE E RICEVERE SEGNALI. Vuol dire che chi comunica (voi) produce segnali verbali (le parole che dite) e non verbali (tutto quanto non è parole: postura, gesti, espressioni, toni…) che devono prima di tutto essere abbastanza percepibili, cioè abbastanza forti e distinti, da colpire adeguatamente il sistema sensoriale degli interlocutori. Insomma: dovete prima di tutto farvi vedere e farvi sentire bene, e se chi vi sta di fronte non vi vede o non vi sente bene la sfida è persa in partenza. Questo fatto elementare spesso viene sottovalutato.

Voce, tono e ritmo. Non parlate sottovoce, o guardandovi la punta dei piedi. Se avete in mano un microfono, tenetelo vicino alla vostra bocca (non all’altezza dell’ombelico!) e non gesticolate con la mano con cui tenete il microfono (l’ho visto fare più di una volta).
Se il microfono è fisso, regolatelo in modo che la distanza dalla vostra bocca sia adeguata: devono essere pochi centimetri. E poi evitate di cambiare posizione.
Se quando parlate preferite stare in piedi e muovervi (io, per esempio, mi sento più a mio agio così) chiedete un microfono da tenere in mano. I microfoni a cuffia tendono a muoversi, quelli da appuntare alla giacca ancora di più, e vi obbligano a passare un cavetto e a fissare una scatoletta sugli abiti.
Se la sala è piccola, fate serenamente a meno del microfono: dovrete parlare a voce un po’ più alta del normale, ma la voce risulterà più naturale e avrete entrambe le mani a disposizione.

Evitate di parlare in modo monocorde. Tenete un ritmo naturale e variato (importantissimo!) articolando bene le parole, specie se state leggendo (ma se non leggete è meglio).
Più la platea è ampia e le persone sono distanti da voi, più vi conviene controllare che la vostra voce arrivi fino in fondo, e accentuare i cambiamenti di tono. E sì: ricordatevi di prendere fiato: le pause servono anche a questo.
Non fidatevi di chi vi dice di par-la-re len-ta-men-te: un oratore lento è noioso. Ma un oratore che affastella parole è incomprensibile. Trovate il vostro ritmo: sarà comunque più lento di quello che usereste parlando normalmente, perché già il fatto di alzare il mento, guardare il pubblico, articolare bene le parole perché siano comprese e tenere un tono più alto vi obbliga a rallentare.
Qualsiasi tipo di voce abbiate, è la vostra e va bene così. Però controllatela e guidatela: la vostra voce è al servizio delle informazioni e del sentimento che volete trasmettere. Restituite, attraverso le pause e l’intonazione, il senso di quel che volete trasmettere.

Gesti, postura, espressioni. Parlando in pubblico, la comunicazione non verbale è tanto importante quanto ciò che dite: rafforza o indebolisce quanto state affermando.
Non siate solo “una voce”. Fate in modo che le persone vi vedano bene in faccia e, se appena potete, alzatevi in piedi per parlare. Se c’è un leggio, non nascondetevici dietro e non aggrappatevici come un naufrago in mezzo all’oceano.
La comunicazione non verbale può anche confermare o smentire quanto state affermando. Per capirci: se esordite dicendo “sono entusiasta di essere qui”, ma avete in faccia un’espressione schifata, state guardando il pavimento e la vostra postura è depressa (spalle curve, braccia penzoloni) state trasmettendo segnali incongruenti. Se c’è contraddizione tra voce e corpo, il pubblico crederà di più, sempre, a quel che dice il vostro corpo che a quello che dite voi.

Se non siete attori professionisti, vi riuscirà difficile tenere sotto controllo la comunicazione non verbale mentre siete lì tutti concentrati su ciò che volete dire. L’unica soluzione è che sappiate benissimo quel che state dicendo, che l’abbiate interiorizzato e che ne siate convinti: solo così il vostro corpo potrà “dire la verità”, aggiungendo la sua propria espressività a quel che voi dite.

2) SCAMBIARE INFORMAZIONI. Un gruppo di segnali (per esempio le parole che dite) è un’informazione solo se ha un senso sia per voi, sia per il vostro pubblico. Se il pubblico non capisce il senso di quel che dite, quella che voi ritenete essere un’informazione dal vostro pubblico verrà percepita come puro rumore. E il vostro discorso risulterà, nel migliore dei casi, inefficace.

Chiarezza, semplicità, struttura. Sia parlando sia scrivendo, se volete comunicare qualcosa, vi tocca sempre calibrare il tipo di parole che usate e il grado di complessità di quel che dite sul livello di competenze del vostro pubblico.
Quando state parlando, l’attenzione a essere chiari è doppiamente importante: se usate codici (parole, concetti) che il vostro pubblico non possiede, verrete sentiti, ma non ascoltati né capiti.
Dunque, le persone devono essere in grado di seguirvi parola per parola: ricordatevi che, a meno che la situazione non sia informale, di solito il pubblico non può interrompere chi sta parlando per chiedere di ripetere una parola o un concetto. Usate parole semplici, frasi brevi. Strutturate quello che state dicendo. Non divagate. Lasciate alle persone il tempo di capire quanto state dicendo. Considerate che una pausa sottolinea ed enfatizza quanto avete appena detto.

Se mentre parlate proiettate testi o immagini, controllate che aiutino a chiarire il senso e che non siano distraenti. Un buon modo per impiegare testi e immagini proiettati è usarli per scandire e segnalare i cambi di argomento, o per ribadire un concetto prima di passare al concetto successivo.
Quando, doverosamente, vi chiedete come parlare a un pubblico, domandatevi in primo luogo come farvi capire dal vostro specifico pubblico.

3) TRA DUE O PIÙ SOGGETTI. Per comunicare bisogna essere (almeno) in due. E per comunicare parlando in pubblico, ci vuole un pubblico. Questo significa che il pubblico, all’interno del processo di comunicazione, è un soggetto tanto importante quanto voi.

Entrare in contatto. Molti suggeriscono di scegliere uno spettatore a caso e di agganciarne lo sguardo. Altri, di saettare la platea di sguardi. Credo che la cosa più importante sia ricordarsi sempre che il pubblico esiste. Che è il motivo per cui siete lì e dite quel che state dicendo. Che ha delle attese e dei diritti (primi fra tutti quelli di capirvi, di non schiattare di noia, di scoprire qualcosa di interessante).
Dunque, non parlate per voi stessi e per il puro gusto di ascoltare la vostra voce. Evitate di pavoneggiarvi. Cercate di mettervi nei panni del vostro pubblico, e fatelo già mentre (cosa altamente consigliata) preparate e provate il vostro discorso.
Un’operazione complessa come parlare a un pubblico è tutt’altro che spontanea. I discorsidevono sembrare naturali, ma sembrano tanto più naturali quanto più e meglio sono stati preparati e interiorizzati.
Dunque: fate mente locale e allenatevi. Pensate a ciò che può risultare piacevole, interessante o emozionante e non fuorviante per il genere di persone che avete di fronte. Dite o fate tutto quanto di lecito o sensato può venirvi in mente per far capire alle persone che state parlando a loro e per loro. Non abusate della pazienza e della benevolenza del vostro pubblico. Non date per scontato che sia necessariamente paziente e benevolo.

4) UN PROCESSO INTERATTIVO. Mentre parlate a un pubblico voi trasmettete informazioni alla vostra platea, ma anche la vostra platea ne trasmette a voi. E (occhio!) si tratta di informazioni sull’andamento della vostra prestazione.

Tempestività e flessibilità. Di norma un applauso è un segnale importantissimo di incoraggiamento, di consenso o di gradimento: dunque, se arriva un applauso, siate grati. Ma non in tutte le situazioni le persone applaudono (o fischiano, o rumoreggiano). Qualsiasi pubblico manda comunque segnali, e vi conviene coglierli, anche se si tratta di segnali deboli: vi aiuteranno ad aggiustare il tiro.
Se le persone vi stanno ascoltando rapite, bene: potete prendervi ancora un po’ di tempo. Se guardano l’orologio o si agitano, o se l’audio è disturbato, o se la sala è calda, affollata, scomoda, o se c’è un ritardo sulla scaletta, siate sintetici: il vostro pubblico ve ne sarà grato. Se fate una battuta e vedete che nessuno ride, evitate di insistere. Se percepite un calo di attenzione, cambiate qualcosa al volo: passate all’argomento successivo. O raccontate un aneddoto. O concludete in fretta.

Dicevo: questi sono criteri generali. Nel prossimo articolo di questa serie metterò in fila alcuni suggerimenti specifici per organizzare e gestire un discorso e per parlare a un pubblico pubblico. Se avete domande, scrivetele nei commenti. Vi risponderò.


Come e perché prepararsi a parlare in pubblico

Chiunque si rivolga non a una singola persona ma a un gruppo di interlocutori sta, in effetti “parlando in pubblico”. Le regole cambiano.
Può succedere di dover parlare in pubblico in modo del tutto estemporaneo, ma non è frequente: di solito si sa da prima che lo si farà. La ricetta per fare un intervento efficace è una sola: bisogna prepararsi, perché quel che si dice è tanto importante quanto il come lo si riesce a dire.
Prepararsi a parlare in pubblico significa fare diverse cose. Ve le elenco.
FATE MENTE LOCALE. Pensate all’ambiente in cui dovrete parlare. È un’aula universitaria in cui discutete una tesi di laurea? È una riunione di condominio? È un convegno? Un comizio? Un matrimonio? Una presentazione a colleghi di lavoro o a un cliente?
Se l’occasione è importante, cercate di andare prima a vedere il posto. Capite com’è l’acustica e se c’è un microfono, dove starete, e a che distanza dal vostro pubblico, se parlerete in piedi o seduti (se potete scegliere: sempre meglio in piedi).
Se ci sono delle consuetudini o dei vincoli, datevi da fare per conoscerli in anticipo. Sapere prima com’è la situazione vi aiuterà a essere più a vostro agio, e questo migliorerà la vostra prestazione. Se appena potete, organizzatevi per poter fare una prova a sala vuota. Anche gli oratori più esperti lo fanno.

COM’È GRANDE IL VOSTRO PUBBLICO? Parlare a diverse centinaia o migliaia di persone è come essere attori su un palcoscenico: dovrete curare in modo speciale anche il tono e il ritmo che usate parlando, i gesti che fate, il vostro linguaggio del corpo. Con ogni probabilità parlerete un po’ più lentamente del solito: tenetene conto quando progettate il vostro discorso.
Parlare a un piccolo gruppo di persone è del tutto diverso: contano di più la vostra espressione e il fatto che riusciate a entrare in contatto visivo (ed emotivo) con ciascuno degli astanti. Potrebbero esserci delle interruzioni o delle domande: non potete ignorarle, e fi toccherà reagire adeguatamente, e senza perdere il filo. Dunque: interiorizzate bene I contenuti che volete trasmettere e la loro sequenza.
Ho visto una volta un oratore politico, peraltro abbastanza smaliziato, parlare in un’aula universitaria con qualche decina di studenti come se fosse a un comizio in piazza: effetto straniante, e pessimi risultati in termini di persuasione.

DA CHI È COMPOSTO IL VOSTRO PUBBLICO? Qual è il suo livello di conoscenza dell’argomento che tratterete? Quali sono le sue competenze linguistiche medie? Rispondere a queste domande vi aiuterà in primo luogo a farvi capire, calibrando in termini di complessità il linguaggio che userete. Per esempio: I tecnicismi sono più che legittimi se parlate a un pubblico di addetti ai lavori, ma sono sconsigliabili con un pubblico generalista, al quale oltretutto vi toccherà ricordare o spiegare elementi che agli addetti ai lavori sono già più che chiari. In questo secondo caso, è bene non dare mai per scontata alcuna conoscenza men che diffusa.

CHI SIETE VOI IN RELAZIONE AL PUBBLICO? Che attese ha il pubblico nei vostri confronti, e in che modo potete soddisfarle, o addirittura superarle?
La posizione di uno studente che presenta la propria tesi davanti alla commissione di laurea è ovviamente diversa quella del docente che spiega in aula, anche se in entrambi I casi il “pubblico” è obbligato a star lì.
Non scordatevi mai chi siete voi e chi sono le persone che vi ascoltano: questo non significa che lo studente dev’essere “umile” e che il prof. può permettersi di essere arrogante. Piuttosto: non conferite a voi stessi e alle vostre parole né più né meno autorevolezza di quella chepuò effettivamente esservi riconosciuta.
Già che ci sono, vi ricordo un fatto controintuitivo: la sfida vera è tenere alta l’attenzione delle persone che vi ascoltano non per scelta, ma perché non possono fare altrimenti.

QUANTO TEMPO AVETE A DISPOSIZIONE? Lo stesso argomento si può decorosamente trattare in quindici minuti, in quattro ore o in un intero corso universitario. È tutta questione di approfondire e aggiungere dettagli, esempi, casi particolari, dati, storie. Sullo stesso argomento, e per sostenere la medesima tesi, si può costruire un tweet che abbia senso, o un libro di mille pagine che abbia senso.
È il tempo che avete a disposizione a decidere quanto approfonditamente potete argomentare le vostre affermazioni e quanto potete essere dettagliati.
In ogni caso, e anche se avete tempo: evitate di divagare e state sul pezzo.
Specie se avete poco tempo a disposizione, fate la scelta di dire pochissime cose, molto chiare. Meglio una singolo forte argomentazione, conclusa e ribadita, che tre argomentazioni affastellate, lacunose e incomprensibili. Meno tempo avete a disposizione, più tempo vi toccherà dedicare a scegliere bene quell che andrete a dire, e a dargli forma.
Non sforate sui tempi e, se il vostro tempo è finito, non mettetevi a parlare a velocità supersonica per riuscire a dire “tutto”: le persone non ricorderanno niente, se non la vostra inadeguatezza.
Mentre provate il vostro discorso col cronometro in mano, siate realisti e non barate sui tempi. Solo se vi fanno segno che state andando bene e che potete proseguire oltre I tempi previsti (a me è successo una singola volta, e me ne ricordo ancora) potete prendervi un po’ più di agio.

LEGGERE, SCORRERE APPUNTI O PARLARE A BRACCIO? Se appena potete, evitare di leggere. Se per qualche motive dovete leggere, vi serviranno un podio con leggio (controllate di non sparirci dietro, e non afferratelo come se fosse la scialuppa che vi salva nella tempesta) e un microfono fisso (che vi ricorderete di regolare prima di cominciare a parlare). Se dovete leggere, alzate il naso ogni tanto, commentando o completando qualche frase. E date un tono a quell che leggete!, altrimenti tutti cadranno addormentati dal flusso monotono delle vostre parole
Una buona via di mezzo, se non ve la sentite di parlare a braccio, è preparare un foglio scritto in grande, con parole e concetti-chiave. Esercitatevi a svilupparli, sempre col cronometro in mano.
Se volete parlare a braccio, chiaritevi benissimo la sequenza degli argomenti. Cercate le parole più semplici e usate frasi brevi per non ingarbugliarvi. Una sequenza di immagini o parole–chiave su un powerpoint possono aiutarvi. Non leggete le schermate di powerpoint, però. Prepararsi a parlare in pubblico è sempre consigliabile, ma in quest’ultimo caso è imperativo.

QUANTO TEMPO INVESTIRE PER PREPARARSI A PARLARE IN PUBBLICO? Tutto quello che serve. E difficilmente sarà poco.
Ricordate che il vostro primo obiettivo è dire qualcosa che le persone siano interessante a sentire, felici di aver ascoltato, ansiose di ricordarsi.



Parlare bene in pubblico, avendo qualcosa da dire

Non ha senso illudersi di saper parlare bene in pubblico senza avere qualcosa di rilevante da dire. Rem tene, verba sequentur (sii padrone del concetto, le parole seguiranno), scrive nelle Orationes Marco Porcio Catone, il primo grande oratore dell’età romana.
L’affermazione non fa una piega. O quasi.
Se è verissimo che bisogna sapere quel che si dice, non è così vero che, quando si sa quel che si dice, poi lo si riesce sempre a dire in maniera chiara (tanto da risultare comprensibili a tutto il pubblico), interessante (tanto da catturare l’attenzione), memorabile (tanto da essere ricordati),convincente (tanto da guadagnarsi la fiducia del pubblico e da risultare persuasivi).

Nei primi quattro articoli di questa serie dedicata al parlare in pubblico abbiamo visto che: (1) questa competenza nel nostro paese non è diffusa quanto dovrebbe, e che (2) saper governare le parole, tanto da trasformarle in pugni o in carezze, aiuta a costruire discorsi capaci di muovere le persone e cambiare le cose.

Poi abbiamo visto che per parlare bene in pubblico è indispensabile (3) tenere a mente le regole di base e i vincoli propri di qualsiasi processo di comunicazione, e i modi peculiari in cui parlando in pubblico quelle regole vanno seguite e quei vincoli vanno osservati.

Infine, abbiamo visto (4) come ci si prepara a parlare in pubblico: facendo mente locale su ambiente e occasione, interrogandosi su dimensioni, composizione e competenze del pubblico, immaginandone le attese, tenendo conto del tempo a disposizione, decidendo se parlare a braccio o a partire da appunti, e valutando i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna opzione.
Ma aver qualcosa da dire resta la condizione necessaria. D’accordo, non è sufficiente. Ma, siccome resta necessaria, eccoci qui a concludere parlando di contenuti. E di come strutturarli.

CHE COSA AVETE DA DIRE? Qual è il messaggio che volete trasmettere, la tesi che volete difendere, l’idea che volete promuovere, l’appello che volete diffondere? Insomma: qual è il succo del discorso? Riuscite a formularlo in breve (e “in breve” vuol dire in una decina di parole)?

Vi suggerisco di fare questo esercizio prima di cominciare a lavorare sul vostro discorso. È meno facile di quel che sembra, perché vi obbliga a scegliere ciò che è davvero importante, scartando tutto il resto. Potreste, per esempio, scoprire che quel che volete dire, ridotto all’osso, non sta in piedi (e forse allora vi conviene investire qualche tempo per mettere a fuoco le idee). Oppure potreste scoprire che per dar conto di tutto quello che vorreste dire vi servono molte più parole (e allora forse vi conviene istituire una gerarchia di concetti o di temi, e concentrarvi sul principale: quello da cui derivano, o attorno al quale ruotano, tutti gli altri).

L’esercizio che vi ho proposto è utile anche per un altro motivo. Riesco a raccontarvelo con un esempio. Immaginate che il tema sia (appunto) parlare in pubblico. Conoscete già la mia tesi in proposito. Ma ecco: provo a sintetizzarla in quattro modi diversi:
– Parlare bene in pubblico è importante. Imparare si può.
– Parlare in pubblico: non sparatele grosse, prendete la mira.
– Come fare discorsi efficaci e potenti catturando il pubblico.
– L’unico vero trucco per parlare bene in pubblico è prepararsi.

Da queste sintesi escono, sul medesimo tema, discorsi un po’ diversi tra loro: più focalizzato sulle tecniche e i vantaggi del parlare bene in pubblico il primo. Più attento alla prestazione dell’oratore e al suo rapporto con la platea il secondo. Più orientato alla componente persuasiva il terzo. Più polemico nei confronti delle innumerevoli liste di trucchi per parlare in pubblico che si trovano in rete il quarto. Insomma: la sintesi vi dà conto dell’argomento e del taglio del vostro discorso. Solo quando entrambi gli elementi vi sono chiari e vi sembrano convincenti potete continuare.
Già che ci sono, vi dico che scrivendo questa serie di articoli avevo in mente qualcosa di molto simile alla prima delle quattro sintesi.

Una volta che avete capito bene che cosa andrete a dire, cominciate a prendere appunti. Li riordinerete man mano che la struttura del vostro discorso prende forma e si consolida, integrando, togliendo o aggiungendo elementi se vi sembra necessario farlo, fino a costruire un sommario. Ehi: non limitatevi ad ammucchiare concetti: riordinate e togliete tutto quanto è superfluo. Considerate che, del vostro discorso, il pubblico catturerà e ricorderà pochi elementi: meglio che siano quelli importanti.

CHE PAROLE USERETE? Concluso il sommario, metterete in fila le parole: scrivete il vostro discorso, se intendete poi leggerlo. Attenzione: il vostro discorso andrà detto nel modo più naturale possibile. Usate frasi brevi se no rischiate di restare senza fiato. Lasciate a voi stessi la possibilità di aggiungere qualche parola a o un breve commento estemporaneo, alzando il naso verso il vostro pubblico.

Per esempio, non scrivete:
Non sarà mai sottolineata a sufficienza l’importanza del parlare bene in pubblico, ampiamente sottovalutata nel nostro paese a tutti i livelli, a cominciare dall’istituzione scolastica che a livello formativo trascura le complesse competenze legate all’oralità evoluta a favore di quelle legate alla parola scritta.
Ehi! È astratto! È cacofonico (sufficienza/importanza/competenze)! Non vi permette di riprendere fiato! Non è musicale, e c’è un sacco di roba inutile! Ripete due volte una parola (livelli, livello) chenon è una parola-chiave!

Provate a scrivere, invece, qualcosa come:
Parlare bene in pubblico è importante. Qui in Italia non ce ne rendiamo conto. A scuola impariamo a leggere e a scrivere, ma non impariamo a parlare in maniera efficace.
Se provate a leggere a voce alta entrambe le frasi in corsivo vi accorgete della differenza.

Se (molto meglio!) intendete parlare a braccio, appuntatevi frasi e parole-chiave, e soprattutto i modi in cui transiterete il più naturalmente possibile da un argomento all’altro. E cominciate a fare delle prove. Provate a voce alta, anche se vi sembra strano e fastidioso. Vi aiuterà a familiarizzare con il suono della vostra voce, a cui di solito non fate caso. A tenere sotto controllo ritmi e pause. A controllare i tempi.
Il sommario che avete preparato è anche la base per preparare un buon powerpoint, se avete deciso di usarlo. È un lavoro in più da fare.

COME COMINCIATE ? Come il decollo e l’atterraggio per un aereo, l’esordio e la conclusione del vostro discorso sono due momenti critici per la qualità complessiva della vostra prestazione. Anche se molti lo consigliano, non è detto che dobbiate esordire con una battuta o una storiella. In certe situazioni si può fare, in altre è sconsigliabile. Inoltre, certi oratori riescono ad esordire con una battuta in modo plausibile e accattivante, e altri proprio non ce la fanno (devo ammettere di appartenere a questa seconda categoria).

Se è il caso (per esempio, a un convegno) esordite salutando e ringraziando brevemente: basta qualche parola, e poi entrate in argomento. Oppure entrate subito in argomento. Cominciate con un’affermazione forte, che anticipi e incornici quello che andrete a raccontare, aiutando le persone a orientarsi fra le vostre parole.

RACCONTARE E ARGOMENTARE. Discorrendo, avrete dei fatti da raccontare o delle idee da esporre. Siate chiari e date tutte le informazioni necessarie a far sì che il pubblico vi segua senza fatica. Evitate le digressioni inutili. Se un fatto, un’idea, un passaggio logico sono importanti, trovate il modo di sottolinearli (gesti, voce, pause) e di ribadirli. Siate concreti: fate esempi. Offrite dei dati, se ce ne sono (ma arrotondate le cifre e non perdetevi nei decimali). Siate vivaci, ma non enfatici.

Se i fatti e le idee sono il “che cosa”, le argomentazioni sono il “perché”. Potete prima esporre i fatti, e poi argomentarli esprimendo le vostre opinioni e le vostre tesi in proposito. O potete far seguire ciascun fatto e ciascuna idea dalla sua interpretazione argomentata. La cosa importante è che l’esposizione sia lineare, resti vivace e e sia tanto breve quanto è possibile, senza sacrificare comprensione e pathos. Abbiate senso della misura e del ritmo (che varierete, se no la gente si addormenta. Anche un discorso tutto strillato e concitato è noioso, esattamente come un discorso tutto sussurrato e lento). A proposito di pathos: spesso una metafora è più illuminante di una lunga, e noiosa, argomentazione astratta. Se volete approfondire, date un’occhiata qui.

Un discorso è anche fatto della musica delle parole. Alcune strutture retoriche (per esempio, laripetizione nelle sue molte forme) sono amiche dell’oratore. Usatele, ma senza esagerare con gli effetti speciali.

CONCLUDETE BENE. Del vostro discorso le persone si ricorderanno poche cose, e una di queste è con ogni probabilità la conclusione. È un motivo ulteriore per essere brevi, così vi resta tutto il tempo necessario per concludere senza dover accelerare in modo innaturale mentre qualcuno tra il pubblico comincia a dar segni di insofferenza e il moderatore, se c’è, vi guarda storto.
Se parlare bene significa in primo luogo farsi capire dal pubblico, concludere bene vuol dire portare dalla vostra parte un pubblico che vi ha capito: ricapitolate i punti salienti, come se riassumeste un viaggio che avete appena fatto tutti insieme. Ribadite, con altre parole, la vostra tesi.

La conclusione è anche il momento in cui potete (sempre con misura, e in modo congruente con la situazione) mettere un accento sulla parte emozionale di quanto state affermando. Infine: non dimenticatevi si salutare e ringraziare. Anche un semplice “grazie” può bastare, se lo dite in modo convincente e senza fissarvi la punta delle scarpe.

IMPREVISTI. Una volta, mentre stavo parlando in una sala, è caduto un pezzo di lampadario. Per fortuna non ha colpito nessuno. Mi sono interrotta, ho aspettato che la gente si ripigliasse, e quando tutti si sono tranquillizzati ho ripreso con un breve commento sull’accaduto. Ve lo dico per suggerirvi di non ignorare quanto succede di fronte a voi, ma di inserire quanto vi accade intorno nel vostro discorso. Se non lo fate, sembrate marziani.

PREPARATEVI. PREPARATEVI. PREPARATEVI. Tutti i grandi oratori all’inizio erano pessimi oratori, dice Ralph Waldo Emerson. I buoni discorsi non si improvvisano.
A proposito di parlare bene: Kennedy, che non è certo un novellino, impiega due mesi per mettere insieme il breve, notissimo discorso d’insediamento concludendo il quale dice “non chiedetevi che cosa il vostro paese può fare per voi, ma che cosa voi potete fare per il vostro paese” (a proposito di strutture retoriche amiche dell’oratore: questo è un chiasmo).

American Rhetoric raccoglie i 100 discorsi più importanti della storia degli Stati Uniti. Potreste dargli un’occhiata seguendo sì le argomentazioni, ma osservando anche come sono costruiti. Sono tutti stati fatti da gente che davvero ha “qualcosa da dire”, e che riesce a dirlo in modo indimenticabile.

mercoledì 6 luglio 2016

(EEG) è possibile predire quanto velocemente un adulto possa imparare una seconda lingua.

Secondo una recente ricerca, pubblicata su Brain and Language e condotta all’Università di Washington, registrando per 5 minuti l’attività cerebrale a riposo per mezzo dell’elettroencefalogramma (EEG) è possibile predire quanto velocemente un adulto possa imparare una seconda lingua.

Introduzione

Lo studio è stato finanziato dal U.S. Office of Naval Research, che ha fondato il programma chiamato Operational Language and Cultural Training System (OLCTS), nel tentativo di rendere il personale militare capace di comunicare in una lingua straniera dopo appena 20
ore di lezione.
Per capire come è stato possibile rintracciare questa correlazione, è bene spiegare prima la metodologia impiegata dai ricercatori.

Avvalendosi dell’analisi quantitativa dell’elettroencefalogramma (qEE), è possibile convertire la registrazione elettrofisiologica dal dominio del tempo (time domain) al dominio delle frequenze (frequency domain). Così facendo, si ottengono delle bande di frequenza, corrispondenti all’attività cerebrale cognitivamente rilevante per il compito che prendiamo in esame. Sebbene sia chiaro che le differenti bande partecipano alle funzioni di un unico network cerebrale, il ruolo di ognuna all’interno di un complesso compito cognitivo (ad es., esprimersi in una lingua straniera) rimane un’area di ricerca aperta. Riguardo i compiti linguistici, alcuni studi hanno evidenziato il ruolo del ritmo della banda beta (13-30 Hz) e della banda theta (4-8 Hz); ciò non stupisce se si comprende che entrambe le bande sono implicate nella codifica e nel recupero mnestico.

Lo studio

Scopo di questo studio era quindi indagare la relazione tra l’attività a riposo del cervello, evidenziata dalle bande di frequenza dell’EEG, e la predisposizione ad acquisire più o meno velocemente una lingua straniera.

L’esperimento in questione ha coinvolto 19 adulti con età compresa tra 18 e 31 anni, senza alcuna precedente nozione di lingua francese, e prevedeva che essi sedessero con gli occhi chiusi e venisse registrata per 5 minuti l’attività cerebrale a riposo per mezzo di una cuffia EEG. Precedenti ricerche, infatti, avevano rintracciato come l’efficienza e la sincronizzazione cerebrale fossero caratteristiche stabili presenti nei soggetti più dotati nell’acquisire nuove lingue; gli indici qEEG sono infatti altamente ereditabili e predittivi della performance ad una grande varietà di test cognitivi. Sulla base di tali premesse, i soggetti partecipavano ad un corso virtuale ed intensivo di francese di 30 minuti a seduta erogato due volte la settimana presso il laboratorio dell’università, per un periodo complessivo di 8 settimane.

Esso si componeva di una serie di scene e storie in aggiunta ad un software di riconoscimento vocale in grado di correggere la pronuncia del soggetto. Per assicurarsi che i partecipanti mantenessero l’attenzione sul corso, i ricercatori impiegavano dei quiz tra una lezione e l’altra, che permettevano al soggetto di accedere alla lezione successiva a patto di aver totalizzato un determinato punteggio al test precedente. Al termine delle 8 settimane, ogni soggetto svolgeva una verifica sulla base delle lezioni completate.

L’articolo prosegue dopo il video:

I risultati

Le registrazioni EEG hanno rivelato che i pattern di attività cerebrale correlati ai processi linguistici erano fortemente relati al ritmo di apprendimento dei partecipanti. Tuttavia la predisposizione ad acquisire una nuova lingua non è così indispensabile, afferma la dott.ssa Chantel Prat, ricercatrice presso l’Institute of Learning & Brain Sciences. Infatti, la varianza spiegata dall’attività cerebrale risultava pari al 60%, valore che lascia perfettamente spazio ai fattori ambientali, modificabili dall’individuo stesso.

Per tale motivo, variabili come la motivazione dell’individuo risultano determinanti nell’acquisire una nuova lingua. In aggiunta, Prat sottolinea che l’attività a riposo del cervello è influenzabile da svariati training di neurofeedback – i cui effetti sono oggi oggetto di studio presso il laboratorio dell’Università di Washington. Infatti, ad oggi la specificità di tali training sulle capacità di apprendimento linguistico è bassa; l’obiettivo del team della dott.ssa Prat è quindi indagare quelle differenze individuali che maggiormente influenzano l’apprendimento di una nuova lingua, al fine di sviluppare training più efficaci.


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2016/05/pattern-cerebrali-apprendimento-nuova-lingua/