Leggere per imparare, per rilassarsi, per conoscere. Ma anche per diventare persone migliori, stare meglio con gli altri o addirittura per guarire. Sono sempre di più gli studi che mostrano come i libri siano fonte inesauribile di benessere, psicologico e non solo: una ricerca dell’Università svedese di Göteborg, condotta di recente su un gruppo di donne con patologie che riducevano la loro capacità lavorativa, ha dimostrato, ad esempio, che la lettura di romanzi porta in breve tempo a stare meglio e anche a fare passi avanti notevoli nella riabilitazione. Gli autori raccontano che la malattia aveva tolto la voglia di un buon libro perfino alle più assidue lettrici; poi, però, le donne hanno ricominciato a leggere, qualcuna storie che riflettevano la propria situazione, altre scegliendo testi di evasione pura. Tutte hanno ammesso di trovare sollievo nei libri e sono riuscite a tornare al lavoro prima del previsto.
LEGGIAMO POCO - Un piccolo esempio di “biblioterapia”, la cura con i libri che nel mondo anglosassone è diffusa, ma nel nostro Paese stenta a decollare, forse perché, nonostante una nobile tradizione letteraria, in Italia si legge poco, pochissimo (secondo gli ultimi dati Istat oltre metà degli italiani non finisce neppure un libro nell’arco di un anno). «La biblioterapia è nata agli inizi del ‘900 negli Stati Uniti, quando lo psichiatra William Menninger iniziò a prescrivere libri ai suoi pazienti, notando m
iglioramenti - spiega Rosa Mininno, psicologa e psicoterapeuta responsabile dell’unico sito italiano dedicato al tema (www.biblioterapia.it) -. Si tratta sempre di percorsi di lettura scelti, pensati apposta per il singolo paziente e per il momento che sta vivendo. Un libro non deve essere mai un’imposizione, ogni scelta va motivata: si possono suggerire volumi di diverso genere, dai romanzi al teatro, dalla poesia ai saggi che aiutano a comprendere meglio la propria condizione da un punto di vista clinico o filosofico. Fino ai grandi classici: Seneca, Tacito o Cicerone sono una fonte inesauribile di riflessioni. Il meccanismo con cui il libro “guarisce” è infatti la sua capacità di aprire la mente: la sofferenza, fisica o psicologica che sia, porta all’isolamento e il libro invece ci connette con il mondo. Attraverso le storie possiamo identificarci nei personaggi, per affinità o per contrasto, ed essere stimolati a comportamenti che aiutino a uscire dal disagio».
POESIA PER CURARSI - La biblioterapia viene usata spesso in pazienti con malesseri psicologici (come disturbi d’ansia, depressione, problemi alimentari), ma può essere un valido sostegno anche in caso di malattie organiche, da quelle oncologiche a quelle cardiologiche. Francesco Bovenzi, presidente dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri e responsabile della Cardiologia presso l’ospedale di Lucca, sta conducendo uno studio su una trentina di ricoverati con patologie cardiache per verificare se la lettura di un volume di poesie raccolte allo scopo (intitolato “Il cuore ha bisogno di poesia”) possa avere effetti positivi sulla salute dei malati. «Sono liriche semplici che toccano temi universali. Il gradimento dei pazienti è alto e, accanto alla valutazione degli effetti organici tuttora in corso, abbiamo già osservato un miglioramento nella relazione con i medici - racconta Bovenzi -. Non è poco, perché magari la poesia non dilata direttamente le coronarie, ma certamente può aiutare il paziente a stare bene, a recuperare un dialogo di fiducia con il curante e, di conseguenza, a seguire di più le terapie». «Un’atteggiamento psicologico positivo nei confronti della malattia, qualunque essa sia, serve per guarire prima e meglio. I libri, soprattutto se prescritti in un percorso ragionato, aiutano a trovare in se stessi le più efficaci capacità di reazione - dice Mininno -. Per di più servono alla prevenzione. Alcune esperienze nel Regno Unito hanno dimostrato che la biblioterapia in soggetti con ansia e attacchi di panico riduce gli accessi ai Pronto soccorso».
PERICOLOSI EFFETTI COLLATERALI - Chiunque, poi, può leggere: lo dimostrano le esperienze condotte con successo su malati psichiatrici gravi, i progetti nelle carceri, i dati ottenuti in bambini e adolescenti che mostrano, ad esempio, come la biblioterapia aiuti a contrastare il bullismo. E perfino i tomi all’apparenza più ostili, come i classici latini, possono essere alla portata di tutti: il terapeuta può leggerne brani assieme al paziente e a volte basta stimolare la curiosità per veder fiorire l’interesse per testi che toccano emozioni universali, oggi come ieri. Ma, essendo “farmaci”, anche i libri hanno “effetti collaterali”? «Certamente - risponde Mininno -. I libri di auto-aiuto che promettono guarigioni lampo, ad esempio, sono pericolosi, perché illudono i pazienti di trovare per i loro problemi scorciatoie che non esistono. Tutt’altro significato possono avere i volumi che affrontano la condizione del paziente con chiarezza e senza false promesse. Bisogna essere cauti anche consigliando libri a chi potrebbe non essere capace di sfruttare in modo “creativo” le letture, finendo per vivere perennemente in un mondo irreale. Ci sono poi due generi di libri che non vanno mai prescritti, quelli violenti come gli horror o i testi di pseudo-erotismo, che di fatto sono pornografici. I primi soddisfano il gusto del macabro, ma non servono per affrontare l’aggressività nel paziente come erroneamente alcuni credono; i secondi si vendono per la loro carica di morbosità, ma non aiutano a ritrovare un equilibrio sessuale».
FIN DA PICCOLI - Non tutti i libri curano, insomma, né sono “buoni” per la nostra crescita interiore. Perché leggere fa bene anche quando non siamo malati, ma stiamo semplicemente cercando un testo (saggio o romanzo non fa differenza) che ci aiuti in un momento delicato dell’esistenza. In questo caso la scelta è più libera, ma secondo la psicologa, perché sia “giusta”, oltre ad affidarsi al consiglio di operatori esperti del settore (dai bibliotecari agli ormai quasi estinti librai), bisognerebbe “saggiare” il libro senza fermarsi al titolo, sfogliando qualche pagina per capire di che si tratta. Perché «la vita è troppo breve per leggere brutti libri», come recita il motto di due terapiste londinesi, Ella Berthoud e Susan Elderkin, che poche settimane fa hanno pubblicato una guida alla biblioterapia, chiamata The novel cure (“La nuova cura”, ma anche “La cura del romanzo”): per ogni caso della vita si potrebbe trovare un aiuto in testi più o meno classici; ad esempio, se si è perso il lavoro potrebbe servire la lettura di Bartleby lo scrivano di Herman Melville e se ci si sente sopraffatti dallo stress e dalla mancanza di ideali si potrebbe ricorrere a Tess dei D’Urbervilles di Thomas Hardy. Purtroppo, visto l’amore italico per la lettura, questi sono consigli che rischiano di non trovare ascolto, come sottolinea Mininno: «In Italia tutti scrivono e pochi leggono. Per favorire l’avvicinamento ai libri, tanto preziosi per il nostro benessere psichico e fisico, servono di più piccole esperienze, dai gruppi di lettura alle serate tematiche nelle biblioteche. Senza contare che i buoni lettori si allevano fin da piccoli, insegnando il piacere di un bel libro ai propri figli».
http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/13_novembre_29/biblioterapia-funziona-mente-corpo-a08797e8-58f1-11e3-ade8-6dbcc0d06561.shtml
lunedì 2 dicembre 2013
domenica 10 novembre 2013
Neuroscienza: Così il cervello frena il nostro egocentrismo
Un’area cerebrale entra in azione per valutare gli stati emotivi degli altri evitando distorsioni autoreferenziali
Siamo tutti un po’ egocentrici. Se non altro perché nel relazionarci con gli altri, inevitabilmente, facciamo riferimento a noi, al nostro io, al nostro umore per capire stati d’animo ed emozioni altrui. Questo meccanismo autoreferenziale di proiezione delle proprie emozioni sugli altri, del resto, è alla base dell’empatia, della capacità di capire chi ci sta intorno e di mettersi nei panni degli altri. Ma a volte, proprio per questo, facciamo degli errori di valutazione piuttosto grossolani, chiamati “bias egocentrici emotivi”. Per esempio, quando siamo tristi tendiamo a percepire anche gli altri giù di tono, così come quando siamo felici anche le persone con cui interagiamo ci appaiono più raggianti, solo perché noi lo siamo. In parte questi errori vengono arginati grazie a particolari meccanismi cerebrali di correzione che un team di ricercatori illustra su The Journal of Neuroscience. Coordinati da Tania Singer, del Max Planck Institute di Leipzig, hanno individuato infatti l’area del cervello che ha un ruolo cruciale nel superare l’egocentrismo emotivo. Si tratta del giro supramarginale destro, dell’area parieto-temporale, che entra in azione per valutare correttamente gli stati emotivi degli altri evitando distorsioni egocentriche.
LO STUDIO - La capacità di distinguere l’altro da sé è una funzione primaria della cognizione sociale in generale, che attiva reti neurali sia nella giunzione temporale destra che nelle aree della corteccia prefrontale mediale. «Per indagare i meccanismi neurali alla base di questo bias emotivo, abbiamo messo a punto un nuovo paradigma sperimentale, che affianca a esperimenti comportamentali l’uso della risonanza magnetica funzionale e della stimolazione magnetica transcranica» spiega Giorgia Silani, neuroscienziata della Sissa di Trieste e coautrice dello studio. Durante gli esperimenti, i ricercatori hanno indotto in soggetti adulti sani delle sensazioni piacevoli e spiacevoli attraverso stimolazioni tattili e visive, chiedendo loro di interpretare le emozioni provate dagli altri, al fine di misurare la tendenza a fare errori di valutazione degli stati d’animo altrui e, attraverso la risonanza magnetica (fMRI), individuare i marker fisiologici di questo meccanismo.
INCONGRUENZE - «Fare riferimento alle proprie emozioni per capire quello che ci accade intorno è un meccanismo adattivo, funzionale, che ci aiuta a comprendere meglio gli altri e favorisce le relazioni sociali - aggiunge Silani, che indaga i meccanismi alla base delle emozioni, in particolare dell’empatia -. Ma se faccio riferimento al mio stato emotivo anche quando è diverso dal tuo, per esempio quando ho appena perso il lavoro e tu invece hai appena vinto alla lotteria, rischio di attribuirti delle emozioni che non provi con inevitabili fraintendimenti. E proprio nelle situazioni sperimentali di incongruenza affettiva, quando cioè una persona prova piacere e l’altra disgusto, abbiamo effettivamente osservato l’attivazione del giro supramarginale destro che aiuta a sovrascrivere il nostro innato egocentrismo». Per interferire temporaneamente con il normale funzionamento della regione del cervello identificata con l’fMRI, i ricercatori hanno utilizzato la tecnica della stimolazione magnetica transcranica, una metodologia innocua in grado di silenziare brevemente l’attività elettrica dei neuroni. «Abbiamo osservato che disturbando la funzionalità del giro supramarginale destro, i soggetti commettono significativamente più distorsioni egocentriche, confermando dunque il ruolo cruciale di quest’area cerebrale nell’innescare meccanismi di correzione».
NARCISISMO - Risultati promettenti, secondo Silani e colleghi, se si considera che alcune ricerche, tra cui quelle di Jean Twenge, psicologa della San Diego State University, hanno evidenziato un aumento dell’egocentrismo negli ultimi decenni, almeno tra le nuove generazioni di statunitensi, tanto da parlare di “epidemia di narcisismo”, e che l’egocentrismo è una caratteristica di diversi disturbi mentali e della personalità. «Un io incapace di empatia, di mettersi cioè nella prospettiva dell’altro, interferisce con la convivenza sociale - precisa la neuroscienziata italiana -. E in quest’ottica, i nostri risultati sono interessanti, perché forniamo informazioni sui meccanismi neurali che permettono di bloccare i bias egocentrici emotivi, e il paradigma che abbiamo sviluppato potrebbe rivelarsi estremamente utile per la diagnosi e la ricerca in ambito clinico».
http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/13_ottobre_17/cosi-cervello-frena-nostro-egocentrismo-80aa0196-373f-11e3-ab57-6b6fcd48eb87.shtml
Siamo tutti un po’ egocentrici. Se non altro perché nel relazionarci con gli altri, inevitabilmente, facciamo riferimento a noi, al nostro io, al nostro umore per capire stati d’animo ed emozioni altrui. Questo meccanismo autoreferenziale di proiezione delle proprie emozioni sugli altri, del resto, è alla base dell’empatia, della capacità di capire chi ci sta intorno e di mettersi nei panni degli altri. Ma a volte, proprio per questo, facciamo degli errori di valutazione piuttosto grossolani, chiamati “bias egocentrici emotivi”. Per esempio, quando siamo tristi tendiamo a percepire anche gli altri giù di tono, così come quando siamo felici anche le persone con cui interagiamo ci appaiono più raggianti, solo perché noi lo siamo. In parte questi errori vengono arginati grazie a particolari meccanismi cerebrali di correzione che un team di ricercatori illustra su The Journal of Neuroscience. Coordinati da Tania Singer, del Max Planck Institute di Leipzig, hanno individuato infatti l’area del cervello che ha un ruolo cruciale nel superare l’egocentrismo emotivo. Si tratta del giro supramarginale destro, dell’area parieto-temporale, che entra in azione per valutare correttamente gli stati emotivi degli altri evitando distorsioni egocentriche.
LO STUDIO - La capacità di distinguere l’altro da sé è una funzione primaria della cognizione sociale in generale, che attiva reti neurali sia nella giunzione temporale destra che nelle aree della corteccia prefrontale mediale. «Per indagare i meccanismi neurali alla base di questo bias emotivo, abbiamo messo a punto un nuovo paradigma sperimentale, che affianca a esperimenti comportamentali l’uso della risonanza magnetica funzionale e della stimolazione magnetica transcranica» spiega Giorgia Silani, neuroscienziata della Sissa di Trieste e coautrice dello studio. Durante gli esperimenti, i ricercatori hanno indotto in soggetti adulti sani delle sensazioni piacevoli e spiacevoli attraverso stimolazioni tattili e visive, chiedendo loro di interpretare le emozioni provate dagli altri, al fine di misurare la tendenza a fare errori di valutazione degli stati d’animo altrui e, attraverso la risonanza magnetica (fMRI), individuare i marker fisiologici di questo meccanismo.
INCONGRUENZE - «Fare riferimento alle proprie emozioni per capire quello che ci accade intorno è un meccanismo adattivo, funzionale, che ci aiuta a comprendere meglio gli altri e favorisce le relazioni sociali - aggiunge Silani, che indaga i meccanismi alla base delle emozioni, in particolare dell’empatia -. Ma se faccio riferimento al mio stato emotivo anche quando è diverso dal tuo, per esempio quando ho appena perso il lavoro e tu invece hai appena vinto alla lotteria, rischio di attribuirti delle emozioni che non provi con inevitabili fraintendimenti. E proprio nelle situazioni sperimentali di incongruenza affettiva, quando cioè una persona prova piacere e l’altra disgusto, abbiamo effettivamente osservato l’attivazione del giro supramarginale destro che aiuta a sovrascrivere il nostro innato egocentrismo». Per interferire temporaneamente con il normale funzionamento della regione del cervello identificata con l’fMRI, i ricercatori hanno utilizzato la tecnica della stimolazione magnetica transcranica, una metodologia innocua in grado di silenziare brevemente l’attività elettrica dei neuroni. «Abbiamo osservato che disturbando la funzionalità del giro supramarginale destro, i soggetti commettono significativamente più distorsioni egocentriche, confermando dunque il ruolo cruciale di quest’area cerebrale nell’innescare meccanismi di correzione».
NARCISISMO - Risultati promettenti, secondo Silani e colleghi, se si considera che alcune ricerche, tra cui quelle di Jean Twenge, psicologa della San Diego State University, hanno evidenziato un aumento dell’egocentrismo negli ultimi decenni, almeno tra le nuove generazioni di statunitensi, tanto da parlare di “epidemia di narcisismo”, e che l’egocentrismo è una caratteristica di diversi disturbi mentali e della personalità. «Un io incapace di empatia, di mettersi cioè nella prospettiva dell’altro, interferisce con la convivenza sociale - precisa la neuroscienziata italiana -. E in quest’ottica, i nostri risultati sono interessanti, perché forniamo informazioni sui meccanismi neurali che permettono di bloccare i bias egocentrici emotivi, e il paradigma che abbiamo sviluppato potrebbe rivelarsi estremamente utile per la diagnosi e la ricerca in ambito clinico».
http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/13_ottobre_17/cosi-cervello-frena-nostro-egocentrismo-80aa0196-373f-11e3-ab57-6b6fcd48eb87.shtml
domenica 3 novembre 2013
lunedì 7 ottobre 2013
Howard Gardner
Howard Gardner, nato nel 1943, dal 1986 è Docente di Cognitivismo e Pedagogia alla Facoltà di Scienze dell'Educazione all'Università di Harvard, dove è anche professore associato di Psicologia. alla Facoltà di Medicina all'Università di Boston e co-direttore del Progetto Zero, un gruppo di ricerca sulla formazione della conoscenza, che riconosce grande importanza alle arti. E' autore di numerosi libri che sono state tradotti in 20 lingue.
Per vent'anni è stato ricercatore in psicologia al centro di ricerca Aphasia del Veterans Administration Hospital di Boston.
Howard Gardner è famoso in tutto il mondo per la sua teoria delle intelligenze multiple, una critica serrata alla tesi secondo la quale gli uomini possiedono una sola intelligenza, misurabile con strumenti psicometrici standard (“Frames of mind” pubblicato nel 1983).
Nel corso degli ultimi 15 anni Gardner e i suoi colleghi del Progetto Zero hanno studiato le implicazioni della teoria delle intelligenze multiple sull'insegnamento, l'apprendimento e il rendimento in classe, suggerendo nuove possibilità di coltivare le doti di ciascuno studente. Hanno lavorato sulla valutazione basata sulle prestazioni, sull'educazione al comprendere, e sull'uso delle intelligenze multiple con la finalità di costruire curricoli, forme di insegnamento e di valutazione più personalizzati. In questi ultimi tempi Gardner ha intrapreso studi intensivi su casi esemplari di creatori e leader. Insieme ai suoi colleghi sta cercando di capire i rapporti tra professioni di frontiera ed etica.
Ha ricevuto molti riconoscimenti, tra i quali alcune lauree ad honorem, tra cui quella dell'Università di Tel Aviv. Nel 1990 è stato il primo americano a ricevere il prestigioso premio per l'educazione Grawemayer dell'Università di Louisville
Ecco che cosa Gardner ha scritto di sè :
"Sono nato a Scranton, PA nel 1943, figlio di un rifugiato della Germania nazista. Sono stato un bambino studioso, che traeva grande piacere nel suonare il piano; la musica è sempre rimasta molto importante nella mia vita. Tutta la mia formazione postsecondaria si è svolta ad Harvard. Mi sono specializzato come psicologo dell'età evolutiva e più tardi come neuropsicologo. Per molti anni ho seguito due filoni di ricerca sulle capacità cognitive e simboliche: uno con bambini normali e dotati, l'altro con adulti che avevano subito lesioni al cervello.
Il mio sforzo di sintetizzare questi due filoni di lavoro è sfociato nella teoria delle intelligenze multiple, che ho formulato e divulgato nel mio libro del 1983 Frames of the Mind. Dalla metà degli
anni ottanta sono stato coinvolto profondamente nei tentativi di riforma della scuola negli Stati Uniti. Nel 1986, ho cominciato ad insegnare alla Facoltà di Scienze dell'Educazione a Harvard, e ho contemporaneamente mantenuto il mio lungo impegno al Progetto Zero, un gruppo di ricerca sulla formazione delle conoscenze, che fa particolare riferimento alle arti. Più recentemente mi sono impegnato in uno studio a lungo termine sui valori che guidano le professioni di frontiera in questa nostra era di veloci e radicali cambiamenti. Sono sposato con Ellen Winner, una psicologa dell'età evolutiva che insegna all'Università di Boston. Ho quattro figli: Kerith (1969), Jay (1971), Andrew (1976) e Benjamin (1985). Le mie passioni sono la mia famiglia e il mio lavoro; mi piace anche viaggiare e amo l'arte in moltissime sue espressioni.
I miei principali filoni di lavoro sono stati descritti in numerosi libri e articoli, riscontrabili nell'elenco delle mie pubblicazioni. Potete richiedermi informazioni sul mio lavoro, scrivendomi per posta normale o tramite posta elettronica all'indirizzo hgasst@pz.harvard.edu. Tengo conferenze su temi quali la creatività, la leadership, l'etica professionale, e le arti. Le richieste per
tenere conferenze vanno di norma inoltrate con alcuni anni di anticipo. ”
Il punto di partenza della concezione di Gardner è la convinzione che la teoria classica dell'intelligenza, basata sul presupposto che esista un fattore unitario, misurabile tramite il QI, sia errata.
Ogni persona è dotata di almeno sette intelligenze ovvero, è intelligente in almeno sette modi diversi. Ciò significa che alcuni di noi possiedono livelli molto alti in tutte o quasi tutte le intelligenze, mentre altri hanno sviluppato in modo più evidente solo alcune di esse. Tuttavia è importante sapere che ognuno può sviluppare tutte le diverse intelligenze fino a raggiungere soddisfacenti livelli di competenza. Gardner sostiene pertanto che tutti possiamo sviluppare le nostre diverse intelligenze se siamo messi nelle condizioni appropriate di incoraggiamento, arricchimento e istruzione. Inoltre le intelligenze sono strettamente connesse tra di loro e interagiscono in modo molto complesso
Dopo aver effettuato indagini sull'intelligenza dei bambini e su adulti colpiti da ictus, egli giunse alla conclusione che gli esseri umani non sono dotati di un determinato grado di intelligenza generale, che si esprime in certe forme piuttosto che in altre, quanto piuttosto che esiste un numero variabile di facoltà relativamente indipendente tra loro, Gardner arriva a identificare differenti tipologie di intelligenza:
1. Intelligenza logico-matematica: capacità di usare i numeri in maniera efficace e di saper ragionare bene. Questa intelligenza include sensibilità verso principi e relazioni, abilità nella valutazione di oggetti concreti o astratti.In breve:
* riconoscimento di modelli astratti
* ragionamento induttivo
* ragionamento deduttivo
* saper discernere relazioni e connessioni
* saper svolgere calcoli complessi
* pensiero scientifico e amore per l'investigazione
2. Intelligenza linguistica: capacità ad usare le parole in modo efficace, sia oralmente che per iscritto. Questa intelligenza include padronanza nel manipolare la sintassi o la struttura del linguaggio, la fonologia, i suoni, la semantica, e nell'uso pratico della lingua.
In breve:
* facilità di parola
* saper spiegare, insegnare e apprendere verbalmente
* saper convincere altri (linguaggio e scrittura persuasiva)
* analisi meta-linguistica
* humour basato sulla lingua
* memoria verbale
3. Intelligenza spaziale: abilità a percepire il mondo visivo/spaziale accuratamente e operare trasformazioni su quelle percezioni. Questa intelligenza implica sensibilità verso il colore, la linea, la forma, lo spazio. Include la capacità di visualizzare e rappresentare idee in modo visivo e spaziale.
In breve:
* immaginazione attiva
* saper trovare la propria strada nello spazio (forte senso dell'orientamento)
* formare immagini mentali (visualizzare)
* rappresentare graficamente (pittura, disegno, scultura, ecc)
* riconoscere relazioni di oggetti nello spazio
* manipolazione mentale degli oggetti
* accurata percezione da angoli diversi
* memoria visiva
4. Intelligenza musicale: capacità di percepire, discriminare, trasformare ed esprimere forme musicali. Capacità di discriminare con precisione altezza dei suoni, timbri e ritmi.
In breve:
* apprezzamento per la struttura della musica e del ritmo
* sensibilità verso i suoni e i modelli vibratori
* riconoscimento, creazione e riproduzione di suono, ritmo, musica, toni e vibrazioni
* apprezzamento delle caratteristiche qualità dei toni e dei ritmi
5. Intelligenza cinestetica: nell'uso del proprio corpo per esprimere idee e sentimenti e facilità ad usare le proprie mani per produrre o trasformare cose. Questa intelligenza include specifiche abilità fisiche quali la coordinazione, la forza, la flessibilità e la velocità.
In breve:
* controllo dei movimenti del corpo "volontari"
* movimenti del corpo "pre-programmati"
* esternazione della consapevolezza attraverso il corpo
* connessione mente-corpo
* abilità mimetiche
* perfezionamento delle funzioni del corpo
6. Intelligenza interpersonale, abilità di interpretare le emozioni, le motivazioni e gli stati d'animo degli altri. Abilità di percepire e interpretare gli stati d'animo, le motivazioni, le intenzioni e i sentimenti altrui. Ciò può includere sensibilità verso le espressioni del viso, della voce, dei gesti e abilità nel rispondere agli altri efficacemente e in modo pragmatico.
In breve:
* comunicazione verbale/non verbale efficace
* sensibilità verso gli stati d'animo, i sentimenti, i temperamenti altrui
* saper creare e mantenere la "sinergia"
* profondo ascolto e profonda comprensione delle prospettive altrui
* empatia
* lavorare in gruppo in modo cooperativo
7. Intelligenza intrapersonale, abilità di comprendere le proprie emozioni e di incanalarle in forme socialmente accettabili. Riconoscimento di sé e abilità ad agire adattivamente sulla base di quella conoscenza. Avere una accurata descrizione di sé; coscienza dei propri stati d'animo più profondi, delle intenzioni e dei desideri; capacità per l'autodisciplina, la comprensione di sé, l'autostima. Abilità di incanalare le proprie emozioni in forme socialmente accettabili.
In breve:
* concentrazione mentale
* saper essere memore e attento ("fermati e annusa le rose")
* metacognizione ("pensare al pensare")
* coscienza e discriminazione della gamma delle proprie emozioni
* coscienza delle aspettative e delle motivazioni personali
* senso del sé
* coscienza spirituale
Gardner ha aggiunto successivamente un'ottava e una nona intelligenza.
8. Intelligenza naturalistica: relativa al riconoscimento e la classificazione di oggetti naturali Oggi è forte l'impatto con i problemi dell'ambiente e sono evidenti le grandi dosi di intelligenza e sensibilità richieste per salvare l'ambiente dal degrado, dall'abbandono, dal depauperamento; per salvare specie animali dall'estinzione; per preservare foreste pluviali dalla distruzione totale che causerebbe cataclismi climatici; per proteggere animali dallo sfruttamento frenato, dall'abbandono, dalla vivisezione, dalla violenza imposta; per proteggere dall'estinzione piante tropicali medicinali utilizzate per combattere gravi malattie e forme tumorali; per ridurre l'inquinamento di intere regioni che provoca effetti devastanti sulla salute degli uomini; per rendere le nostre città più vivibili, i nostri cibi più sani, le nostre case più sicure.
Chi ha una spiccata intelligenza naturalistica manifesta:
* comunione con la natura
* sensibilità verso flora e fauna
* amore per l'allevamento di animali o la coltivazione di piante
* cura e interazione con creature viventi
* apprezzamento dell'impatto della natura su di sé e di sé sulla natura
* saper riconoscere e classificare oggetti naturali
9. Intelligenza esistenziale, che riguarderebbe la capacità di riflettere sulle questioni fondamentali concernenti l'esistenza e più in generale nell'attitudine al ragionamento astratto per categorie concettuali universali.
Un esempio molto semplice e significativo lo possiamo trovare nella vita di tutti i giorni nell'atto di cucinare una pietanza. Ciò mette in moto e in relazione più di una delle nostre intelligenze: leggere la ricetta (intelligenza verbale); calcolare gli ingredienti necessari (intelligenza matematica); tenere conto dei gusti personali (intelligenza intrapersonale) e di quelli altrui (intelligenza interpersonale). Se ciascuno è cosciente delle proprie intelligenze più forti e di quelle più deboli, può usare le più forti per sviluppare o compensare quelle più deboli.
MODELLI DI INSEGNAMENTO
Il modello di insegnamento e di valutazione più diffuso nella nostra scuola è l'approccio basato su quello che gli studenti sanno. Le domande più usate da parte dell'insegnante sono del tipo: Chi era...? Cosa fece....? Perché disse....? Riassumi. Descrivi. Esponi.
Questo tipo di domande rileva solo le conoscenze di base degli studenti. Ma ciò, anche se non è errato, non basta.
Il nuovo modello proposto:bisogna fornire agli studenti la possibilità di usare ciò che sanno per sviluppare le loro abilità di pensiero.
Il docente dovrebbe insegnare - e gli studenti dovrebbero avere l'opportunità di imparare - in modo analitico, pratico, creativo. "Non esiste un modo giusto di insegnare o di imparare che funzioni per tutti gli studenti. Bilanciando i generi di istruzione e di valutazione si raggiungono tutti gli studenti e non solamente alcuni" (R.J. Sternberg - L. Spear-Swerling "Le tre intelligenze" - Ed. Erickson - 2001 - pag. 74).
Un esempio
Se il tema da sviluppare (ad esempio nella scuola primaria) riguarda le tigri e il problema della loro estinzione, il docente potrebbe chiedere agli allievi di descrivere in modo analitico le somiglianze e le differenze tra i Felini e i Canidi o i Cervidi (sviluppo del pensiero analitico); di pensare e descrivere alcuni modi per proteggere le tigri dal pericolo dell'estinzione (sviluppo del pensiero pratico); di creare un disegno e scrivere una storia sulle tigri (sviluppo del pensiero creativo).
Un altro esempio
Se il tema da affrontare in un triennio superiore riguarda gli effetti della comunicazione di massa, si può chiedere agli studenti di analizzare le differenze e similitudini tra i vari tipi di comunicazione: televisiva, radiofonica, cinematografica e della carta stampata (sviluppo del pensiero analitico); di creare uno spot, un jingle o un poster per un messaggio pubblicitario destinato ai diversi mezzi di comunicazione (sviluppo del pensiero creativo); di pensare ad alcuni modi per rendere il messaggio meno violento, meno pernicioso o - a seconda del tipo di messaggio - più incisivo, più persistente (sviluppo del pensiero pratico).
Prefazione / Introduzione di Howard Gardner
Cinque chiavi per il futuro
“Come studioso di psicologia, ho riflettuto per diversi decenni sulla mente umana: ho appreso come si sviluppa, come è organizzata, come si presenta all'apice dello sviluppo. Ho studiato le varie modalità con cui si apprende, si crea, si esercita la leadership, si modificano le idee proprie o di altri. Il più delle volte mi sono limitato al già arduo compito di descrivere i modi di operare della mente. Ma ogni tanto mi sono anche spinto a proporre un punto di vista su come dovremmo utilizzare le nostre menti.
In Cinque chiavi per il futuro mi azzardo a fare di più. Senza pretendere di avere la sfera di cristallo, mi occupo qui dei tipi di intelligenza di cui gli individui avranno bisogno se vorranno – se vorremo – prosperare nelle epoche future. La mia rimane in gran parte un'impresa descrittiva, nella quale preciso le modalità intellettive che a mio avviso si riveleranno più proficue. Non posso tuttavia nascondere di essermi anche avventurato in considerazioni di merito: le intelligenze che descrivo sono quelle che, a mio avviso, dovremmo sviluppare in futuro.
Come mai questo passaggio dalla descrizione alla prescrizione? Nel mondo interconnesso in cui vive oggigiorno la grande maggioranza degli esseri umani, non basta dire che cosa occorre a ciascun individuo o a ciascun gruppo per sopravvivere nel suo orticello. Non è possibile, a lungo termine, che alcune parti dell'umanità nuotino nell'abbondanza mentre altre rimangano disperatamente povere e profondamente frustrate. Riprendendo le parole di Benjamin Franklin, “noi dobbiamo realmente stare tutti uniti, altrimenti è certo che saremo divisi”. Inoltre, il mondo del futuro – con gli ubiqui motori di ricerca, robot e congegni informatici di vario tipo – esigerà abilità che finora sono state soltanto facoltative. Per presentarci all'appuntamento nelle condizioni che esso richiede, dovremmo cominciare fin da ora a coltivare queste abilità.
Nel farvi da guida, indosserò all'occorrenza varie vesti. Come psicologo con una lunga esperienza alle spalle, specializzato in scienza dell'apprendimento e in neuropsicologia, farò spesso riferimento alle conoscenze scientifiche di cui disponiamo circa il modo in cui operano la mente e il cervello umani. Ma gli esseri umani si distinguono dalle altre specie per il fatto che oltre alla preistoria hanno anche la storia: centinaia e centinaia di culture e sottoculture, unite dalla possibilità di compiere scelte consapevoli. Quindi, attingerò altrettanto profusamente alla storia, all'antropologia, e ad altre discipline umanistiche. Poiché sto formulando delle ipotesi circa le direzioni che la nostra società e il nostro pianeta hanno intrapreso, si affacceranno in abbondanza considerazioni di carattere politico ed economico. Ma – e lo sottolineo nuovamente – a queste riflessioni speculative si affianca il monito costante che nel descrivere la mente non ci si può sottrarre a un esame dei valori umani.
Ma basta temporeggiare. È tempo di cedere la scena alle cinque dramatis personae di questa presentazione. Ciascuna di esse è stata importante per la storia; ciascuna promette di esserlo ancora di più in futuro. La persona dotata di queste “intelligenze”, come io le chiamo, o mentalità, sarà bene attrezzata per affrontare quello che si aspetta, e anche quello che è impossibile prevedere; la persona priva di queste intelligenze sarà in balìa di forze che non potrà né prevedere né tantomeno controllare. Descriverò brevemente ogni intelligenza; nel corso del libro spiegherò come essa funzioni e come possa essere coltivata in studenti di tutte le età.
L'intelligenza disciplinare governa perlomeno una forma di pensiero: la modalità conoscitiva che caratterizza una particolare disciplina, un certo mestiere o una data professione. Numerosi studi hanno confermato che occorrono fino a dieci anni per padroneggiare una disciplina. L'intelligenza disciplinare sa anche lavorare con costanza per migliorare le capacità e la conoscenza: nel suo ambito è altamente disciplinata. Chi non ha al suo arco almeno una disciplina è inevitabilmente destinato a ballare la musica di altri.
L'intelligenza sintetica accoglie le informazioni da diverse fonti, le comprende e le valuta obiettivamente, le combina in modi che abbiano un senso sia per l'autore della sintesi sia per altri. La capacità di sintesi, preziosa anche in passato, diventa sempre più cruciale via via che le informazioni si moltiplicano a ritmi vertiginosi.
Appoggiandosi alla disciplina e alla sintesi, l'intelligenza creativa si spinge sul terreno dell'innovazione. Propone nuove idee, pone interrogativi inconsueti, inventa nuovi modi di pensare, fornisce risposte inaspettate. Queste innovazioni dovranno alla fine essere accolte da consumatori preparati. Essendo agganciata a un terreno non ancora governato da leggi, la mente creativa può aspirare a superare di un passo anche i computer e i robot più sofisticati.
Riconoscendo che oggi nessuno può più rinunciare alla propria nicchia o al proprio spazio personale, l'intelligenza rispettosa registra e accoglie con favore le diversità che esistono tra i singoli individui e tra le comunità umane, si sforza di capire i “diversi” e di operare efficacemente con loro. In un mondo in cui tutti sono interconnessi, l'intolleranza e l'assenza di rispetto sono opzioni non più concepibili.
Muovendosi a un livello più astratto, l'intelligenza etica riflette sulla natura dell'operare del singolo e sui bisogni e le aspirazioni della società in cui vive. Questa intelligenza è in grado di concepire che i lavoratori possono lavorare per un fine che trascende l'interesse egoistico, e che i cittadini possono operare altruisticamente per migliorare il destino di tutti. L'intelligenza etica costruisce quindi l'azione a partire da queste basi.
Il lettore potrebbe ragionevolmente domandare: perché proprio queste cinque intelligenze? Non potrebbe la lista essere facilmente ampliata, o modificata? Rispondo concisamente: le cinque che ho appena presentato sono oggi le forme di intelligenza più apprezzate, e ancor più lo saranno in futuro. Esse governano tanto la sfera dei processi cognitivi quanto quella dell'iniziativa umana: in questo senso esse sono globali, comprensive. Possediamo qualche nozione su come coltivarle. Ovviamente se ne possono candidare anche altre. Nella fase preparatoria di questo libro, ho preso in esame altre forme di intelligenza: dall'intelligenza tecnologica all'intelligenza digitale, dall'intelligenza mercantile all'intelligenza democratica, dall'intelligenza flessibile all'intelligenza emotiva, dall'intelligenza strategica all'intelligenza spirituale. Sono pronto a difendere energicamente la mia scelta. È questo, anzi, il compito principale di questo libro. [...]”
OPERE (tradotte in italiano)
Ø Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza [1983], Feltrinelli, Milano, 1987
Ø La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, Feltrinelli, Milano, 1988
Ø Prospettiva storico-comparativa rivolta il particolar modo alle più recenti teorizzazioni nell'ambito della cognizione.
Ø Aprire le menti. La creatività e i dilemmi dell'educazione, Feltrinelli, Milano, 1991
Ø Educare al comprendere. Stereotipi infantili e apprendimento scolastico, Feltrinelli, Milano, 1993
Ø Intelligenze creative. Fisiologia della creatività attraverso le vite di Freud, Einstein, Picasso, Eliot, Gandhi e Martha Graham, Feltrinelli, Milano, 1994
Ø Intelligenze multiple, Anabasi, Milano, 1994
Ø L'educazione delle intelligenze multiple, Anabasi, Milano, 1994
Ø Personalità egemoni. Anatomia dell'attitudine al comando, Feltrinelli, Milano, 1995
Ø Sapere per comprendere. Discipline di studio e discipline della mente, Feltrinelli, Milano, 1999
Ø Cambiare idee. L'arte e la scienza della persuasione, Feltrinelli, Milano, 200
Ø Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento. Erickson, Trento, 2005
LINK:
Ø un'intervista: http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/g/gardner.htm
Ø una accurata biografia: http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/biografi/g/gardner.htm
Ø notizie più approfondite su vita e opere: http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=GardnerH.html
Fonte: http://www.apprendimentocooperativo.it/?ida=10642
sabato 5 ottobre 2013
Centro Interamericano para el Desarrollo
del Conocimiento en la Formación Profesional
¿Qué es OIT/Cinterfor?
Desde 1963, el Centro Interamericano para el Desarrollo del Conocimiento en la Formación Profesional (OIT/Cinterfor) es pionero en la gestión, la construcción colectiva del conocimiento y la promoción de la cooperación Sur-Sur en temas relacionados con el desarrollo de los recursos humanos.
Es un Centro especializado de la Organización Internacional del Trabajo -OIT- que articula y coordina la red más grande y prestigiosa de entidades e instituciones, públicas y privadas, dedicadas al fortalecimiento de las competencias laborales.
Esta red, formada por más de 65 entidades de 27 países de América Latina, El Caribe, España y África, colabora activamente en la actualización permanente de la plataforma de gestión del conocimiento que está a disposición del mundo de la formación profesional.
¿Qué es la plataforma de gestión del conocimiento de OIT/Cinterfor?
Fue concebida desde su creación, en el año 1998, como el principal mecanismo para divulgar, compartir, promover y articular las innovaciones, buenas prácticas y recursos de la red de instituciones miembros.
Esta plataforma ofrece acceso a:
información actualizada sobre las entidades asociadas,
páginas destacadas sobre los aspectos más relevantes de la formación profesional,
- bancos de conocimientos:
- publicaciones,
- materiales didácticos,
- buenas prácticas,
- estándares y perfiles de competencias laborales, y,
- comunidades virtuales de aprendizaje y práctica.
¿Cuáles son las ventajas de ser miembro de la Red de OIT/Cinterfor?
- Acceso a conocimientos, innovaciones y experiencias exitosas.
- Articulación y comunicación permanente con las instituciones especializadas sobre la formación profesional.
- Aprendizaje continuo y desarrollo de los recursos humanos.
- Participación en ambientes de trabajo y colaboración.
- Acceso a servicios de consultoría, información y asistencia técnica.
- Visibilidad institucional y participación en ferias, reuniones y eventos de gestión de conocimientos y cooperación Sur-Sur.
¿Cúal es el rol de OIT/Cinterfor?
De manera activa y permanente promueve y facilita la cooperación, articulación e intercambio entre sus instituciones y entidades miembros.
Facilita el diálogo de igual a igual en los temas a nivel regional y mundial; ayuda a establecer y fortalecer vínculos entre sus miembros.
Sistematiza y comparte los conocimientos y las prácticas que se generan a partir de ese intercambio y colaboración.
¿Qué se requiere para ser miembro de la Red?
Expresar su voluntad de compartir el conocimiento que posee y participar en las actividades de la red, ofreciendo y creando conocimiento colectivo.
Realizar una contribución económica que ayuda a financiar la acción básica de la red.
Boletín de novedades del Servicio de Información y Documentación
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sabato 28 settembre 2013
Conectivismo: una teoría del aprendizaje para la era digital
Para mi el conectivismo es la fractalidad que existe entre los procesos neuro-cognitivos de los seres humanos y las extensiones del hombre puestas de manifiesto en la Red, Andrés dixit
Mejor, dejemos los a George Siemens que nos diga más:
¿Qué tiene de original el conectivismo?
por George Siemens
Apenas la semana pasada, le hice una pregunta a Gary Stager en Twitter: “cuando un constructivista construye conocimiento, ¿dónde lo ubica físicamente/biológicamente“.
Gary respondió con algo así como “no sabemos dónde y no me importa. Puedo enseñar bien sin conocer los detalles de cómo trabaja la mente“. Bastante justo.
Diferentes educadores adoptan diferentes acercamientos para que la enseñanza y el proceso de aprendizaje tengan algún sentido. En mi caso estoy tratando de definirlo desde la perspectiva de cómo trabaja nuestra mente.
Gary – en una forma totalmente construccionista (y no lo digo negativamente) – está enfocado principalmente en los resultados prácticos y en las actividades.
Luego Gary hizo una pregunta crítica: ¿cuál es la idea central en cuanto al Conectivismo? La respuesta es un poco más larga que los 140 caracteres permitidos por Twitter, por lo que intentaré contestarla aquí.
Ante todo, una nueva idea a veces es una vieja idea puesta el contexto actual. Por ejemplo, ¿qué aporta de nuevo el constructivismo? ¿Que la gente construya su propio conocimiento? O, ¿la naturaleza social y adaptada del aprendizaje? ¿Qué el conocimiento no es algo que exista fuera del conocedor?.
Obviamente cada uno de estos conceptos puede ser fácilmente encontrado en muchos filósofos. Esas ideas han existido en distintas formas a lo largo de los últimos 2000 años.
Lo que hoy tiene de nuevo el constructivismo es que estos principios están siendo (han sido) unidos a los reclamos de una reforma educativa por personajes tales como Spencer, Dewey y Piaget.
Veamos, en el libro Getting it Wrong from the Beginning de Kieran Eganpuede verse una exploración más detallada de este tema. Pero se trata de algo más que del cambio de políticas y reclamos de un mayor control del estudiante.
El Constructivismo tiene sentido a partir de moverse en sintonía con las tendencias culturales y los puntos de vista filosóficos de la actualidad. A medida que la autoridad en la sociedad se desplazó, la Verdad fue cuestionada, el post-modernismo floreció y nuestro entendimiento de diversas culturas y modos de conocimiento creció, pareció totalmente natural que las teorías del conocimiento y del comportamiento pasaran al asiento trasero.
Lo que hay de nuevo en el constructivismo, y por favor hágame llegar sus comentarios si están en desacuerdo, es que éste combina las ideas pre-existentes de una manera que se adapta a las necesidades y tendencias de nuestra era actual.
En este sentido, el connectivismo también coincide en traer al primer plano las ideas de filósofos y teóricos de generaciones anteriores. Gran parte de su originalidad es su particular combinación e integración de ideas que reflejan las tendencias de la sociedad y la información más amplias. Pero yo pienso que hay ideas originales en el Conectivismo.
Sin embargo, antes de hablar de ellas, quisiera referirme a algunas de las teorías existentes que sirven como basamento al Conectivismo (y en gran medida, yo creo, al constructivismo).
¿En dónde se origina el conectivismo?
Todas las ideas son herederas de otras. Todos los conceptos tienen raíces. Las siguientes están relacionadas con el Conectivismo:
Las herramientas aumentan nuestra habilidad de interactuar con otros y hacer cosas.
Las herramientas son extensiones de la humanidad, aumentando nuestra habilidad para externalizar nuestro pensamiento en formas que podemos compartir con otros. El lenguaje es un ejemplo. La teoría de la actividad provee una base en este aspecto. Igualmente lo hace el trabajo socio-cultural de Vygotsky.
La noción de Gibson de “affordances” (cualidad de un objeto o un ambiente que permite a un individuo hacer una acción ) de herramientas, que está basada en su investigación sobre la percepción, también juega un papel en la validación del uso de las herramientas. Y, ¿cómo podríamos dejar fuera de una discusión sobre el lenguaje a la noción de Wittgenstein del entendimiento negociado? De la misma manera, los instrumentos son “portadores de modelos de razonamiento previo” (Pea) y reflejan algún tipo de ideología. Esta visión también es central en la afirmación de Postman acerca de que toda tecnología es portadora de una ideología.
Naturaleza contextual/situacionado del aprendizaje. El aprendizaje situacionado deriva del trabajo de Lave y Wenger; sin embargo, no sería exagerado decir que el énfasis de Papert en el “active doing” coincide, al menos parcialmente, con ello.
Teoría del aprendizaje social. Aquí podemos partir del énfasis de Bandura en la auto-eficacia, Bruner, Vygotsky, y otros.
Visión epistemológica: toda la teoría del aprendizaje tiene sus raíces en la epistemología (aún cuando von Glaserfeld afirma que estamos en una era post-epistemológica, sugiriendo que generar una teoría del conocimiento es exactamente lo que el constructivismo no puede hacer).
Como base epistemológica para el Conectivismo he encontrado que el trabajo de Stephen Downes sobre conocimiento conectivo es valioso. Más recientemente, Dave Cormier ha estado anunciando el concepto de conocimiento rizomático y comunidad en su currículum.
Concepto de mente. La noción de mente es enormemente compleja.
Hemos encontrado una mezcla única de filósofos, neurocientíficos y expertos en inteligencia artificial en esta área tales como Churchlands, Papert y Minsky, McClelland y Rumelhart, Clark (embodied cognition), Spivey, y más.
La mente es vista – en muy distintos grados – como integrada y distribuida sobre numerosos instrumentos, relaciones y artefactos. Hutchins popularizó esta noción en su ensayo sobre Conocimiento Distribuido.
Estos conceptos también se ven reflejados en los escritos de Weick sobre interrelación atenta. Los textos editados de Salomon sobre cogniciones distribuidas extienden estas ideas en un contexto educativo.
También encontramos una visión compatible de conectivismo en la labor de los teóricos de los nuevos medios de comunicación, comoMcLuhan, al explorar el impacto de la tecnología en lo que significa ser un ser humano.
El impacto de la tecnología sobre la humanidad continuará creciendo en una mayor importancia dado que somos cada vez más capaces de aumentar el funcionamiento cognitivo humano a través de los productos farmacéuticos y la futura promesa de microcircuitos integrados.
También encontramos soporte para conectivismo en las más nebulosas teorías de complejidad y sistemas basados en el pensamiento.
Por ejemplo, Mason, Davis, y otros, ha publicado recientemente una serie de artículos sobre el impacto de la teoría de la complejidad en la empresa de la educación.
Personas como Barnnett sugieren que debería ser más exactamente llamado”supercomplejidad” pues no podemos ni siquiera comenzar a comprender las direcciones que tomarán las cosas en el futuro.
Teoría de la red. Sociólogos, matemáticos, y físicos han pasado varias décadas definiendo las redes y los atributos de red. Somos capaces de definir las principales estructuras de la red, el modo de comportamiento, y el flujo de información.
Conceptos como pequeños mundos, leyes exponenciales, hubs, agujeros estructurales, vínculos débiles y / fuertes son comunes en la literatura. El foco educacional en las redes proviene del trabajo de Starr-Roxanne Hiltz, Chris Jones, Martin de Laat, y otros.
Las redes son importantes en todos los aspectos de la sociedad, no sólo en educación. Esta prominencia se debe en parte a la reconocible metáfora de la Internet… pero las redes han existido siempre. Como dice Barabási, las redes están en todos lados. Sólo necesitamos tener el ojo acostumbrado a ellas.
Las ideas singulares en el conectivismo
Si esos elementos constituyen la base del conectivismo – y, en diversos grados de participación, en el patrimonio del constructivismo y cognitivismo – qué es lo particular del conectivismo. Para comenzar la discusión, y una que será un enfoque crítico en nuestro curso de otoño, voy a sugerir lo siguiente:
Conectivismo es la aplicación de los principios de redes para definir tanto el conocimiento como el proceso de aprendizaje.
El conocimiento es definido como un patrón particular de relaciones y el aprendizaje es definido como la creación de nuevas conexiones y patrones como también la habilidad de maniobrar alrededor de redes/patrones existentes.
El Conectivismo aborda los principios del aprendizaje a numerosos niveles – biológico/neuronal, conceptual, social/externo. Este es un concepto clave sobre el que escribiré más durante el curso online.
Lo que estoy diciendo con conectivismo (y creo que Stephen compartiría esto) es que la misma estructura de aprendizaje que crea conexiones neuronales se pueden encontrar en la forma de vincular ideas y en la forma en que nos conectamos con las personas y a las fuentes de información. Un cetro para gobernarlos a todos.
El Conectivismo se enfoca en la inclusión de tecnología como parte de nuestra distribución de cognición y conocimiento.
Nuestro conocimiento reside en las conexiones que formamos – ya sea con otras personas o con fuentes de información como bases de datos. Adicionalmente, la tecnología juega un rol clave en:
Trabajo cognitivo en la creación y visualización de patrones.
Extender e incrementar nuestra habilidad cognitiva.
Mantener informaciónen una forma de rápido acceso (por ejemplo, buscadores, estructuras semánticas, etc.)
Vemos el comienzo de este concepto en los debates basados en la herramienta de la Teoría de la Actividad. El conectivismo reconoce la importancia de las herramientas como un objeto de mediación en el sistema de nuestra actividad, pero luego se extiende sugiriendo que la tecnología desempeña un papel central en nuestra distribución de la identidad, la cognición y, por ende, el conocimiento.
Contexto. Mientras que otras teorías prestan atención parcial al contexto, el conectivismo reconoce el carácter fluido del conocimiento y de las conexiones basadas en contexto. Como tal, se hace cada vez más vital que no nos centremos en conocimientos pre-hechas o pre-definidos, sino en nuestras interacciones con los demás, y el contexto en que surgen esas interacciones. El contexto aporta tanto a un espacio de conocimientos conexión /intercambio como lo hacen las partes implicadas en el intercambio.
Entendimiento. Coherencia. Racionalización. Significado. Estos elementos son importantes en el constructivismo, en menor medida en el cognitivismo, para nada en el conductismo. Sin embargo, en el conectivismo, sostenemos que el rápido flujo y la abundancia de la información hacen que estos elementos tengan importancia crítica. Como se dijo al comienzo de este artículo, el constructivismo encontró sus raíces de crecimiento en el clima de la reforma social y la era post-moderna.
El conectivismo encuentra sus raíces en el clima de abundancia, de rápido cambio, diversas fuentes de información y perspectivas, y la necesidad crítica de encontrar una forma de filtrar y encontrar sentido al caos. Como tal, la centralidad interconectada del conectivismo permite una ampliación de la abundancia y la diversidad.
El clima de la información continua y los cambios en curso plantea la importancia de estar continuamente actualizada. Como ha señalado Anderson, “más es diferente“. El “más“de la información y la tecnología hoy en día, y la necesidad de estar actualizados, constituye el clima que da origen al conectivismo.
Nota: Contribuye con tus propias ideas, comentarios y retroalimentación al abordaje que hace George Siemens sobre lo que realmente es el Conectivismo proporcionando comentarios también en su sitio .
Para aprender más sobre George Siemens y para acceder a uan extensa información sobre el aprendizaje, ve www.elearnspace.org. También explora el site de George Siemens sobre conectivismo para encontrar recursos sobre la naturaleza cambiante del aprendizaje, revisa su nuevo libro “Knowing Knowledge“.
George Siemens-Referencia: Connectivism Blog [ Seguir leyendo ]
Este artículo fue escrito originalmente por George Siemens y fue publicado por primera vez el 6 de Agosto, 2008 para Connectivism Blog como ” What is the unique idea in Connectivism?“. La versión en castellano fue traducida por Silvia Chauvin
venerdì 27 settembre 2013
Una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca ha osservato come si muovono i ragazzi lombardi fra internet e i social media
Gli studenti, oggi, non possono proprio più fare a meno di internet. Utilizzano la rete per chattare sui social network ma lo fanno anche per trovare informazioni e condividerle. Eppure, siamo sicuri con il web si impari di più? Sicuramente non migliora il voto in italiano o in matematica, almeno secondo un’Indagine sull’uso dei nuovi media tra gli studenti delle scuole superiori lombarde condotta dal Gruppo di ricerca sui nuovi media del dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Milano-Bicocca con la collaborazione dell’Osservatorio sulla comunicazione dell’Università Cattolica di Milano. Una ricerca che è stata svolta su un campione di 2.327 ragazzi e che ha analizzato le loro dotazioni tecnologiche, l’uso dei nuovi media e le competenze digitali.
Gli studenti lombardi trascorrono circa tre ore al giorno in rete, chattando sui social network (lo fa l’83 per cento degli intervistati) e cercando informazioni e approfondimenti (il 53 per cento). Attraverso i dati dei test Invalsi, poi, i ricercatori hanno associato l’utilizzo dei media digitali ai livelli di apprendimento. E così, se internet viene percepito dalla maggioranza degli studenti come uno strumento fondamentale (anche) per lo studio, secondo questa Indagine per ogni ora passata sul web l’apprendimento cala di 0,8 punti (su 100) in italiano e di 1,2 punti in matematica. Un calo che è ancora più marcato se si considera solo la quota di tempo che gli studenti trascorrono online per motivi di studio: meno 2,2 punti ( su 100) in italiano e 3,2 punti in matematica. Tuttavia, 32 giovani su 100 confessano di cercare online proprio quelle informazioni che non riescono a trovare nei libri. E il 41 per cento usa la rete anche per scambiare informazioni con i compagni di scuola.
Chi sono allora questi studenti 2.0? La ricerca prova a disegnare un identikit. Rispetto al passato, i ragazzi dei centri di formazione professionale hanno superato quelli dei licei e degli istituti tecnici quanto a tempo speso online. A fronte di una permanenza in rete dello studente medio di 3 ore al giorno, un liceale naviga quotidianamente 2 ore e 48 minuti. Chi frequenta un centro di formazione professionale invece rimane connesso 3 ore e un quarto. Tutti, però, usano i social network. Facebook è protagonista: l’82 per cento degli intervistati possiede un profilo e quasi sei su dieci riferiscono di tenerlo aperto anche mentre fanno i compiti. Non tutti, invece, usano i social allo stesso modo. Secondo i ricercatori, chi frequenta un liceo e chi ha genitori con un alto grado di istruzione preferisce uno stile d’uso più restrittivo: poche informazioni condivise online, un profilo privato e contatti prevalentemente con persone conosciute fuori dalla rete. Gli altri, invece, usano i social media in modo più aperto, mettendo molte informazioni a disposizione di tutti e scegliendo un profilo completamente pubblico.
Tutti insomma navigano in internet, ma non tutti lo fanno allo stesso modo. Basta leggere attentamente i dati che riguardano il livello di competenza digitale critica, ossia la capacità di navigare valutando le fonti, consci dei rischi e della natura dei contenuti offerti dal web. Chi frequenta un liceo è riuscito a rispondere correttamente al 69 per cento delle domande dei ricercatori mentre gli altri studenti solo al 56 per cento. Un simile divario si nota anche tra i figli di italiani e quelli di genitori immigrati. Cosa vuol dire? Significa, ad esempio, che tutti (o quasi) utilizzano Wikipedia ma solo tre ragazzi su dieci sanno spiegare esattamente come funziona. «Quelli che vengono definiti nativi digitali appaiono in realtà bisognosi di una guida rispetto agli usi significativi della rete - ha spiegato Marco Gui, ricercatore in Sociologia dei media dell’Università Bicocca -. L’utilizzo frequente di internet non si traduce necessariamente nell’essere utenti consapevoli».
Gli studenti lombardi trascorrono circa tre ore al giorno in rete, chattando sui social network (lo fa l’83 per cento degli intervistati) e cercando informazioni e approfondimenti (il 53 per cento). Attraverso i dati dei test Invalsi, poi, i ricercatori hanno associato l’utilizzo dei media digitali ai livelli di apprendimento. E così, se internet viene percepito dalla maggioranza degli studenti come uno strumento fondamentale (anche) per lo studio, secondo questa Indagine per ogni ora passata sul web l’apprendimento cala di 0,8 punti (su 100) in italiano e di 1,2 punti in matematica. Un calo che è ancora più marcato se si considera solo la quota di tempo che gli studenti trascorrono online per motivi di studio: meno 2,2 punti ( su 100) in italiano e 3,2 punti in matematica. Tuttavia, 32 giovani su 100 confessano di cercare online proprio quelle informazioni che non riescono a trovare nei libri. E il 41 per cento usa la rete anche per scambiare informazioni con i compagni di scuola.
Chi sono allora questi studenti 2.0? La ricerca prova a disegnare un identikit. Rispetto al passato, i ragazzi dei centri di formazione professionale hanno superato quelli dei licei e degli istituti tecnici quanto a tempo speso online. A fronte di una permanenza in rete dello studente medio di 3 ore al giorno, un liceale naviga quotidianamente 2 ore e 48 minuti. Chi frequenta un centro di formazione professionale invece rimane connesso 3 ore e un quarto. Tutti, però, usano i social network. Facebook è protagonista: l’82 per cento degli intervistati possiede un profilo e quasi sei su dieci riferiscono di tenerlo aperto anche mentre fanno i compiti. Non tutti, invece, usano i social allo stesso modo. Secondo i ricercatori, chi frequenta un liceo e chi ha genitori con un alto grado di istruzione preferisce uno stile d’uso più restrittivo: poche informazioni condivise online, un profilo privato e contatti prevalentemente con persone conosciute fuori dalla rete. Gli altri, invece, usano i social media in modo più aperto, mettendo molte informazioni a disposizione di tutti e scegliendo un profilo completamente pubblico.
Tutti insomma navigano in internet, ma non tutti lo fanno allo stesso modo. Basta leggere attentamente i dati che riguardano il livello di competenza digitale critica, ossia la capacità di navigare valutando le fonti, consci dei rischi e della natura dei contenuti offerti dal web. Chi frequenta un liceo è riuscito a rispondere correttamente al 69 per cento delle domande dei ricercatori mentre gli altri studenti solo al 56 per cento. Un simile divario si nota anche tra i figli di italiani e quelli di genitori immigrati. Cosa vuol dire? Significa, ad esempio, che tutti (o quasi) utilizzano Wikipedia ma solo tre ragazzi su dieci sanno spiegare esattamente come funziona. «Quelli che vengono definiti nativi digitali appaiono in realtà bisognosi di una guida rispetto agli usi significativi della rete - ha spiegato Marco Gui, ricercatore in Sociologia dei media dell’Università Bicocca -. L’utilizzo frequente di internet non si traduce necessariamente nell’essere utenti consapevoli».
giovedì 19 settembre 2013
Dai corsi online all’esame in aula nasce il modello “Mooc” all’europea
La startup tedesca iversity, grazie ad accordi con alcuni atenei del Vecchio Continente, consentirà a chi ha seguito il corso a distanza, di recarsi in Università e sostenere l’esame, ottenendo crediti formativi veri e propri, e non, come accadeva fino ad ora, un semplice attestato di Federico Guerrini - Berlino
Il fenomeno Mooc, la diffusione di corsi in streaming tenuti via Web da celebri docenti di prestigiose Università americane ed europee, continua a crescere. E sta per essere risolto, forse, uno dei principali problemi legati a questo tipo di corsi, tenuti a distanza e frequentati da un numero altissimo di allievi – molti dei quali però abbandonano prima di averne completato uno: quello della corrispondenza fra attestato di frequenza virtuale e titolo di studio riconosciuto a livello accademico. A segnare un punto di svolta non è uno dei più celebri Mooc a stelle e strisce, come Coursera, o edX, ma una startup berlinese, iversity , che ieri ha annunciato un’importante novità: per alcuni dei circa venti corsi ospitati sulla piattaforma, sarà possibile ottenere dei crediti formativi veri e propri, recandosi di persona nell’ateneo che li propone, dopo la fine del corso online, e sostenendo un esame tradizionale. “Questo é un passo decisivo per integrare finalmente l´insegnamento online nell´offerta formativa delle nostre università - ha afferma Marcus Riecke, amministratore
delegato di iversity - Nell´ambito del processo di Bologna si discute da anni della necessità di supportare la mobilità studentesca. Grazie a questo enorme passo avanti, possiamo trasformare questa visione in realtà”. Il processo di Bologna, per i non addentro alla materia, è un processo di riforma del sistema educativo internazionale che, a partire dal 1999, ha portato avanti l’obiettivo di creare uno “spazio europeo dell’istruzione superiore”. Alla base c’è l’idea di armonizzare i titoli di studio, e dare la possibilità a ciascun studente del Vecchio Continente di effettuare un percorso di studi all’estero e vederselo riconosciuto senza problemi in patria. Se quanto proposto da iversity prenderà piede, sarà ancora più semplice tradurre in realtà quest’obiettivo, attingendo, tramite un qualsiasi computer connesso a Internet al meglio della produzione accademica europea, e acquisendo crediti formativi spendibili ovunque. Fra i primi docenti che hanno accettato di partecipare all’esperimento promosso dalla società tedesca figurano il professor Stefano Mirti dell´Accademia Abadir di Catania, famoso designer italiano, Oliver Vornberger dell´Università di Osnabrück, esperto di e-learning e vincitore del premio Ars Legendi (un prestigioso premio tedesco per l´eccellenza nell´insegnamento) e Marc Oliver Opresnik dell´Università di Lubecca, con un corso sul marketing. Il punto debole di iversity, che propone un modello di Mooc più attento alle modalità curricolari e all’approccio all’insegnamento europeo al momento è il basso numero di corsi, decisamente non paragonabile a quello dei concorrenti americani. Da ottobre però l’offerta formativa dovrebbe arricchirsi, anche grazie all’apporto di varie Università italiane. Fra i corsi in partenza in autunno promossi da atenei della penisola, figurano per esempio un’introduzione – in inglese - alla Filosofia Politica tenuta da Fulvio Cerutti, professore emerito dell’Università di Firenze, e un corso sulla materia oscura che pervade le galassie, tenuto da Paolo Salucci della Sissa di Trieste. Fonte: http://www.lastampa.it/2013/09/19/tecnologia/dai-corsi-online-allesame-in-aula-nasce-il-modello-mooc-alleuropea-d707NaYMVqpPjQltroDz3O/pagina.html
mercoledì 28 agosto 2013
Mooc, le università americane scommettono sui corsi online
27 AGOSTO 2013
C’è aria di novità all’apertura di questo nuovo anno accademico negli Stati Uniti, in particolare dal campus delGeorgia Institute of Technology. Questo rinomato politecnico meglio conosciuto come Georgia Tech lancia infatti in questi giorni un nuovo master biennale in computer science organizzato interamente online grazie alla piattaforma di e-learning fornita dai Mooc, i Massive Open Online Courses. Il corso, gestito in collaborazione con AT&T e Udacity, una delle aziende pioniere del settore, offre un titolo di studio equivalente a quello conferito agli studenti che frequentano di persona ma a una frazione del prezzo: soli 6.600 dollari contro 45.000 (o 21.000 per i residenti di questo stato del Sud degli Stati Uniti).
Questa prima fase dell’iniziativa sarà limitata solo ad alcune centinaia di giovani selezionati dall’università e dai suoi sponsor, ma la volontà è, in linea con il principio ispiratore dei Mooc, di aprire le iscrizioni a tutti coloro che siano minimamente qualificati a seguire i corsi, che i partecipanti si trovino negli Stati Uniti o in qualsiasi altra parte del mondo.
Si tratta qui della più recente evoluzione nel settore dell’e-learning, che in varie forme esiste negli Stati Uniti già da circa quindici anni. Altre università offrono titoli di studio online, ma con modalità e costi molto simili a quelli tradizionali. L’esperimento lanciato da Georgia Tech, invece, dando il proprio avvallo ufficiale ai Mooc, poco interattivi perché pensati per una grande moltitudine di studenti-spettatori online, è destinato a incoraggiare ulteriormente l’adozione di questo genere di corsi da parte del sistema educativo istituzionale.
In questo senso, ad aprire le danze è stato, ancora prima di Georgia Tech, l’American Council on Education (Ace), che a febbraio ha selezionato cinque Mooc – due della Duke University, due dell'University of California Irvine e uno dell'University of Pennsylvania ma tutti gestiti da Coursera, un’altra delle aziende specializzate nel settore – e ha raccomandato a tutte le università del Paese di riconoscere all’interno dei propri corsi di laurea i crediti ottenuti dagli studenti che li abbiano completati.
“Negli Stati Uniti c’è la necessità urgente di educare un numero molto maggiore di cittadini di quanto non stiamo facendo ora, quindi abbiamo bisogno sia che le università funzionino a pieno ritmo sia di sviluppare altre piattaforme – dice Cathy Sandeen, vice presidente responsabile per l’Innovazione di Ace – In questo senso i Mooc possono essere d’aiuto”.
Naturalmente l’introduzione dei Mooc ha già generato mille controversie: sulla loro qualità, ad esempio, che alcuni esperti del settore ritengono insufficiente soprattutto per via della mancanza di interazione con i docenti; e sull’elemento di discriminazione economica che questi corsi rischiano di iniettare nel già fin troppo diversificato panorama dell’istruzione universitaria in America. Il timore è che i titoli di studio più prestigiosi, ottenuti di persona frequentando il college, saranno in futuro appannaggio solo degli studenti più ricchi, e che tutti gli altri si dovranno accontentare dei Mooc e dei più miseri diplomi universitari che conferiscono.
Ora c’è chi è convinto che l’integrazione dei Mooc nell’attuale sistema accademico, con tanto di crediti trasferibili e titoli di studio riconosciuti, rappresenti un passo in avanti proprio nel senso di dare ufficialità a questi corsi online, svincolandoli dall’immagine di corsi di serie B di cui godono oggi. Altri, però, temono invece che quest’ultima trasformazione rischi di rovinare quel poco di buono che c’è nei Mooc, ampliandone invece gli aspetti negativi.
“Sono un grande fan dell’online learning ma non è per tutti – dice Tony Bates, esperto dell’interazione tra tecnologia e educazione e frequente commentatore delle ultime innovazioni del settore – I Mooc sono un ottimo strumento per chi ha già un’istruzione e vuole continuare a apprendere anche da adulto, ma non in sostituzione dell’università”.
È inoltre sempre più diffusa tra gli esperti la sensazione che i college americani, in particolare quelli pubblici che dipendono da scarsi finanziamenti statali, vogliano fare propri i Mooc (o piuttosto l’ibrido scelto da Georgia Tech di corsi comunque a pagamento ma fortemente scontati) al fine di chiudere i buchi di bilancio, a fronte di un elettorato che vuole pagare meno tasse possibili. Stanno quindi insorgendo in tutto il Paese contro questo nuovo uso dei Mooc i professori, in particolare quelli a contratto, che già guadagnano pochissimo per insegnare e non hanno nessuna garanzia rispetto alla sicurezza del proprio impiego. Il pericolo naturalmente è che, se i Mooc dovessero rivelarsi un successo, le università pubbliche decidano di liberarsi di quanto più personale possibile, con un impatto devastante sui professionisti del settore, sulla ricerca e naturalmente anche sulla qualità dell’educazione offerta – replicando nella formazione secondaria l’uragano provocato a suo tempo dalla diffusione di Internet nel mondo del giornalismo.
Per il momento, però, i Mooc sono ancora in fase iniziale e la loro integrazione nel sistema universitario tradizionale sta avendo un successo limitato. “Le ultime ricerche ci dicono che l’uso dei Mooc per ottenere crediti universitari non è particolarmente diffuso – nota Samantha Adams Becker, direttrice per la Comunicazione presso il New Media Consortium - anche tra gli studenti di liceo prossimi al diploma e quelli già al college, ovvero i gruppi demografici più direttamente interessati a questo dibattito, solo il 26% pensa che i Mooc siano una buona idea”. Piuttosto che accogliere con entusiasmo e acriticamente ogni genere di Mooc, prosegue la studiosa, è invece importante estrapolare dai modelli in uso quelle innovazioni che possono in futuro favorire un genere di interazione accademica in cui l’apprendimento può essere condotto anche in maniera diversa dalle lezioni, dagli esami e dalle tesine di oggi. “Tra le nuove tendenze nell’ambito dei Mooc che penso sia importante seguire elencherei l’impiego di ambienti virtuali simili ai videogiochi, l’uso analitico di dati e informazioni sulle performance degli studenti raccolti in tempo reale e l’adozione di materiale didattico adattivo, capace di rispondere alle esigenze specifiche dello studente – conclude Adams Becker – tutti strumenti che contribuiscono a personalizzare le modalità di apprendimento a livello individuale”.
Valentina PasqualI http://www.unipd.it/ilbo/content/mooc-le-universita-americane-scommettono-sui-corsi-online
“Sono un grande fan dell’online learning ma non è per tutti – dice Tony Bates, esperto dell’interazione tra tecnologia e educazione e frequente commentatore delle ultime innovazioni del settore – I Mooc sono un ottimo strumento per chi ha già un’istruzione e vuole continuare a apprendere anche da adulto, ma non in sostituzione dell’università”.
È inoltre sempre più diffusa tra gli esperti la sensazione che i college americani, in particolare quelli pubblici che dipendono da scarsi finanziamenti statali, vogliano fare propri i Mooc (o piuttosto l’ibrido scelto da Georgia Tech di corsi comunque a pagamento ma fortemente scontati) al fine di chiudere i buchi di bilancio, a fronte di un elettorato che vuole pagare meno tasse possibili. Stanno quindi insorgendo in tutto il Paese contro questo nuovo uso dei Mooc i professori, in particolare quelli a contratto, che già guadagnano pochissimo per insegnare e non hanno nessuna garanzia rispetto alla sicurezza del proprio impiego. Il pericolo naturalmente è che, se i Mooc dovessero rivelarsi un successo, le università pubbliche decidano di liberarsi di quanto più personale possibile, con un impatto devastante sui professionisti del settore, sulla ricerca e naturalmente anche sulla qualità dell’educazione offerta – replicando nella formazione secondaria l’uragano provocato a suo tempo dalla diffusione di Internet nel mondo del giornalismo.
Per il momento, però, i Mooc sono ancora in fase iniziale e la loro integrazione nel sistema universitario tradizionale sta avendo un successo limitato. “Le ultime ricerche ci dicono che l’uso dei Mooc per ottenere crediti universitari non è particolarmente diffuso – nota Samantha Adams Becker, direttrice per la Comunicazione presso il New Media Consortium - anche tra gli studenti di liceo prossimi al diploma e quelli già al college, ovvero i gruppi demografici più direttamente interessati a questo dibattito, solo il 26% pensa che i Mooc siano una buona idea”. Piuttosto che accogliere con entusiasmo e acriticamente ogni genere di Mooc, prosegue la studiosa, è invece importante estrapolare dai modelli in uso quelle innovazioni che possono in futuro favorire un genere di interazione accademica in cui l’apprendimento può essere condotto anche in maniera diversa dalle lezioni, dagli esami e dalle tesine di oggi. “Tra le nuove tendenze nell’ambito dei Mooc che penso sia importante seguire elencherei l’impiego di ambienti virtuali simili ai videogiochi, l’uso analitico di dati e informazioni sulle performance degli studenti raccolti in tempo reale e l’adozione di materiale didattico adattivo, capace di rispondere alle esigenze specifiche dello studente – conclude Adams Becker – tutti strumenti che contribuiscono a personalizzare le modalità di apprendimento a livello individuale”.
Valentina PasqualI http://www.unipd.it/ilbo/content/mooc-le-universita-americane-scommettono-sui-corsi-online
venerdì 2 agosto 2013
Media Education e Cittadinanza
Cittadinanza attiva: una definizione
Con l’espressione “cittadinanza attiva” si è soliti
indicare la partecipazione consapevole di una persona alla vita politica e il
suo pieno inserimento nella rete di diritti e doveri che sono costitutivi dell’essere
cittadino.
Perché fare Media
Education.
Secondo Pier Cesare Rivoltella
(Media Education, Carocci, 2001), fra i maggiori esperti di M.E. in Italia,la
necessità di educare ai media si fonda su tre ordini di considerazioni:
Alfabetico: se oggi la
trasmissione culturale e l’interazione sociale si realizzano in buona parte
attraverso i media gli individui non possono fare a meno di conoscere i loro
linguaggi e di utilizzarli.
Metodologico: se, come è
vero, i media si fanno luoghi di produzione e promozione culturale, il sistema
formativo (scuola, famiglia, educatori) non può continuare ad usare solo i
metodi tradizionali di mediazione culturale: ad essi vanno affiancati i nuovi.
Critico: l’educazione ai
media non intende fornire agli individui solo competenze tecniche, essa mira
congiuntamente a sviluppare una consapevolezza culturale: dunque saper usare i
media ma anche saper interagire con essi in maniera riflessiva e responsabile.
L’urgenza
di tale intervento è giustificata inoltre da altre due
considerazioni:
ü
La constatazione che i media inducono rilevanti trasformazioni al
contesto socio-culturale: trasformazioni generalmente percepite nella loro
valenza negativa e dunque intese quali minacce di traumatici cambiamenti in
seno alle comunità sociali, cambiamenti che possono favorire la scomparsa di
forti identità nazionali in favore di una sempre più diffusa omologazione delle
masse, o che accompagnano l’accesso alla comunicazione con una accresciuta
ricchezza interna al paese, oppure al contrario che sottolineano la condizione
di arretratezza e povertà nei Paesi esclusi dai sistemi di comunicazione di massa.
ü
La concezione dei media quali sistemi di rappresentazione della realtà,
una rappresentazione che si teme non essere sempre veritiera ma guidata da
scelte ideologiche o da obiettivi strategici, di comunicazione e di mercato.
ü
Ancora a proposito del perché dedicarsi all’educazione ai media, Len
Masterman, (“Teaching the Media”, Routledge, London, 1985) fra i maggiori
teorici della Media Education, nel 1985 individua 7 ragioni fondamentali:
ü
La pervasività dei Media. grande spazio che i media occupavano nella
vita dei giovani. Nei 12 anni della scuola primaria e secondaria: 11.000 ore
erano trascorse nelle aule scolastiche a fronte di 15.000 passate davanti alla
tv, oltre alle 10.500 date alla popular music. Un tempo più che sufficiente per
ottenere un vero e proprio curricolo di apprendimento, come si è già osservato.
ü
I media costituiscono un’industria delle coscienze Non sono neutrali.
Comprano audience per venderla ai pubblicitari. Impongono modi e stili di vita.
Controllano economia e politica. Masterman paragona il controllo di una radio o
televisione locale al possesso di un castello lungo un fiume o nella vallata
durante il medioevo. Si tratta del controllo di un territorio; nel caso dei media del controllo
delle “coscienze”, cioè dei potenziali consumatori (dei prodotti pubblicizzati
dai media) e dei cittadini (da cui ci si aspetta il consenso elettorale).
ü
I media sono una formidabile fabbrica delle notizie secondo le rigide
regole dell’agenda setting. (sono loro che stabiliscono ciò che è rilevante per
la comunicazione nella società) o del gate keeper (sono loro i guardiani che
filtrano le informazioni che diverranno di dominio comune). La multinazionale
delle agenzie di stampa fornisce e “media” la stragrande maggioranza delle
notizie che troviamo sui giornali, alla radio e in televisione. Per quali interessi? A favore di chi? E a danno
di quali gruppi? Che cosa viene “lasciato passare” e che cosa non verrà
diffuso? La scuola dovrà aiutare gli alunni a leggere criticamente i giornali.
ü
Esiste uno stretto rapporto tra ME e democrazia. L.Jospin, ministro
dell’educazione nazionale del governo francese agli inizi degli anni ‘90, a
conclusione del Colloquio dell’Unesco a Toulouse (1990) sulle nuove tendenze
della Media education a livello mondiale, affermava: “Non c’è democrazia senza
partecipazione, non c’è cittadinanza attiva senza formazione, non c’è
formazione senza informazione, cultura, consapevolezza critica. Se vogliamo che
i media servano la vita democratica di un paese, dobbiamo partire da un
approccio democratico ed educativo ai media nella scuola. La scuola è
necessaria”
ü
L’importanza dell’audiovisivo nella vita moderna. La nostra società è
in qualche modo una società dell’immagine; viviamo avvolti in un flusso
continuo di suoni e immagini. I giovani in particolare avvertono il fascino
della comunicazione audiovisiva. Si tratta di un linguaggio che deve essere
decodificato ed anche usato nelle esercitazioni scolastiche.
ü
La privatizzazione dei media: self media, new media, Internet. La
stanza del giovane è diventata in molti casi una piccola centrale di
comunicazione in collegamento con tutto il mondo. Il “villaggio globale”, la
“piazza del mercato”, l’“areopago” sono ormai di casa e il ragazzo d’oggi è un
abile regista che sa scegliere, dosare, integrare i vari media che ha a
disposizione per i suoi interessi personali (Così viene rilevato nell’ultima
ricerca del prof. M. Morcellini, 2000a).
ü
Dobbiamo educare i giovani per il futuro e il futuro appartenere al
mondo della comunicazione e in particolare alla comunicazione mediata
(Thompson, 1998; Mattelart, 1998).
ü
Oggi la crescente digitalizzazione e globalizzazione dei media, la più
grande diversificazione dell’offerta, i problemi valoriali ed etici che essa
pone, ripresentano e confermano le ragioni che fanno della Media education un compito imprescindibile
della scuola e dell’educazione, oggi (cf Pontificio Consiglio delle
Comunicazioni sociali, Etica della comunicazione, Roma, 4 giugno 2000).
WWW.AIART.COM
lunedì 8 aprile 2013
Il futuro dell'educazione accademica? M.O.O.C.
E' legittimo attendersi che, nel giro di una decade, gli studenti - anche quelli internazionali - potranno laurearsi online selezionando una serie di corsi delle più prestigiose università mondiali direttamente dal proprio laptop. Un pacchetto di corsi che include il meglio dell'accademia americana, da Stanford a Yale, dal MIT a NYU. Il presupposto chiave è che nel ventunesimo secolo, l'università, intesa come luogo fisico e concreto, si reinventa come servizio, luogo post-geografico, accessibile 24 ore su 24 da chiunque e da qualunque luogo del mondo. In questo senso, le iniziative digitali dell'Ivy League statunitense rappresentano il punto di arrivo di un processo di diffusione della cultura accademica che si è concretizzata in esperimenti di grande successo come OpenCourseware (MIT) e iTunes U, senza dimenticare il brillante lavoro svolto da Salman Khan con la sua Khan School. Il rivoluzionario progetto di Khan ha ispirato, tra i tanti, Sebastian Thrun, docente di Stanford e co-inventore delle automobili automatiche di Google, che quest'anno ha lasciato il college californiano per lanciare Udacity, una start-up che si propone di assumere i top talenti nell'ambito dell'educazione per offrire lo stato-dell-'arte dei corsi online. Ciò che accomuna Coursera e Udacity è l'imperativo di garantire l'accesso alle lezioni a tutti gli studenti a costo zero. In altre parole, si tratta di progetti open e non-profit, decentralizzati e flessibili.
La
buona notizia è che la qualità e quantità dei corsi online è aumentata
enormemente rispetto ai primi esperimenti nel settore dell'e-learning,
caratterizzati da una tragica incompetenza pedagogica di fondo e da limiti
tecnologici non indifferenti. Il vero ostacolo, oggi come ieri, è di natura
politica, non tecnologica. Nel momento in cui gli studenti potranno convertire
i crediti "virtuali" accumulati seguendo le lezioni gratuite in
crediti "reali", in veri e propri "diplomi" - ed è solo
questione di tempo- assisteremo a un vero e proprio cambio di paradigma nel
settore dell'educazione universitaria. L'epicentro di questa rivoluzione
copernicana è il Nord America. Le ragioni sono numerose, ma per semplificare ci
limitiamo ad osservare che il sistema universitario americano è il più
dinamico, professionale ed avanzato del mondo. Lo conferma il recente studio di
Universitas 21, un network globale di ricerca universitaria
che misura il livello qualitativo delle istituzioni accademiche mondiali. Il
report pubblicato (link al file
PDF) qualche settimana fa ha preso in esame le istituzioni pubbliche
e private di 48 paesi mondiali, valutandole sulla base di parametri quali
risorse (investimenti pubblici e privati), output (l'impatto della
ricerca svolta dalle varie istituzioni), connettività (la capacità di
collaborare con altre nazioni) ed ambiente (la diversità dei campus e
opportunità offerte agli studenti). Le venticinque nazioni leader nel settore
dell'educazione sono:
Gli
Stati Uniti dominano in settori quali la ricerca, risorse ed impatto extra-accademico.
Non è una sorpresa, ma la performance dell'Italia è pessima su quasi tutti i
fronti (unica eccezione: investimenti statali). I risultati dello studio
parlano da soli:
Questi
dati sono particolarmente preoccupanti perché una nazione che non investe in
formazione di qualità è una nazione senza futuro. La tecnologie digitali
potrebbero offrire al Belpaese un'importante opportunità di crescita e
sviluppo. Ovviamente, la conditio sine qua non è che nella stanza dei
bottoni dell'accademia italiana ci siano leader in grado di a) comprendere e b)
massimizzare il potenziale pedagogico offerto dalle nuove tecnologie, M.O.O.C.
in primis.
La
domanda sorge spontanea: ci sono?
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