Translate

martedì 26 aprile 2016

La lingua che parliamo influenza la personalità e modella il cervello

La nostra visione del mondo è profondamente condizionata, fra l’altro, dal linguaggio che usiamo per esprimerci. L’idioma madre viene oggi correlato anche ad atteggiamenti che ne sembrerebbero lontani, come la propensione al risparmio o il senso di colpa

di Elena Meli

La capacità di comunicare attraverso un linguaggio parlato e scritto, strutturato e complesso, è la caratteristica che più ci distingue dagli altri animali. Non solo: il linguaggio è in grado di “modellare” il nostro cervello, le convinzioni e gli atteggiamenti cambiando il modo di pensare e agire. Essere madrelingua inglese, cinese, o russo ha effetti diversi sull’architettura del pensiero, stando a un numero sempre più nutrito di studi. Succede perché ogni lingua pone l’accento su elementi diversi dell’esperienza, forgiando così un modo specifico di vedere il mondo.
Le parole e il substrato culturale

In parte dipende dalle influenze culturali, come spiega Jubin Abutalebi, neurologo cognitivista e docente di neuropsicologia dell’Università San Raffaele di Milano: «La parola che indica uno stesso oggetto in lingue diverse può acquistare sfumature differenti, che dipendono dal substrato culturale specifico». In cinese “drago” rimanda non solo a un animale fantastico e pauroso ma soprattutto a un simbolo di fortuna, forza, saggezza: inevitabilmente un cinese “vedrà” in modo diverso da un occidentale perfino un essere del tutto irreale. Accadrà lo stesso a un bilingue: per un anglo-cinese il drago sarà meno spaventoso che per un inglese. «La visione culturale sottesa alle pa
role di lingue differenti può influenzare chi conosce più di un idioma — sottolinea Abutalebi —. Il cervello, dovendo processare lingue con una semantica varia, associa ai singoli concetti elementi tratti dai linguaggi che conosce. In genere poi chi padroneggia più lingue è più curioso nei confronti delle culture legate agli idiomi conosciuti e questo facilita una maggior apertura e una visione diversa delle cose. Il modo di pensare e relazionarsi col mondo rimane immutato solo se una lingua viene imposta, perché in questo caso si mette in atto una resistenza a qualsiasi “commistione” culturale».
La madrelingua resta il vettore della morale e dell’etica

L’influenza del linguaggio sul nostro Io è tuttavia ancora più profonda, con effetti sorprendenti perfino sulle decisioni coscienti: uno studio su PLOS Oneha dimostrato che quando ci esprimiamo in una seconda lingua tendiamo ad avere meno remore morali. I partecipanti all’esperimento pubblicato su PLOS One infatti accettavano di sacrificare una persona per salvarne cinque - facendo una scelta “utilitaristica”- più spesso se veniva loro chiesto nella seconda lingua rispetto a quando dovevano esprimere il loro parere in madrelingua: in questo secondo caso prevaleva infatti il divieto morale a uccidere. «Un idioma che non sia appreso dalla nascita è meno influenzato dalle emozioni perché mentre lo si parla si deve esercitare un controllo cognitivo maggiore per “spegnere” la madrelingua, che resta il vettore della morale, dell’etica, dei sentimenti», commenta Abutalebi. Il linguaggio appreso in culla è anche quello che più modula la nostra struttura mentale.
Chi parla una lingua senza numeri non sa far di conto

E la lingua può perfino modulare l’attitudine al risparmio come ha scoperto l’economista Keith Chen dell’Università di Los Angeles: i cinesi, che non hanno un tempo verbale preciso per indicare il futuro, hanno una propensione a mettere da parte i soldi del 30% maggiore rispetto a chi parla lingue più “definite” forse perché «identificare linguisticamente il futuro in modo distinto dal presente lo rende più lontano, motivando meno a risparmiare», ha spiegato Chen. Si è scoperto che pure indicare il genere delle parole incide sulla visione del mondo: uno studio su bambini ebrei e finlandesi ha rivelato che i primi si accorgono in media un anno prima di essere maschi o femmine anche perché la loro lingua assegna quasi sempre il genere alle parole, mentre in finlandese non accade. In alcuni casi gli effetti di un idioma sono ancora più curiosi: Lera Boroditsky, dell’Università di Stanford, ha verificato che nella lingua della tribù Piraha, in Amazzonia, non esistono lemmi per indicare i numeri ma solo i termini “pochi” o “tanti”. Risultato, i Piraha non sanno tenere conto di quantità esatte.
Forse Shakespeare aveva torto: ciò che chiamiamo rosa non profumerebbe così tanto, se la chiamassimo con un altro nome.
Con i numeri serve un maggiore «sforzo cognitivo»

Riguardo alla matematica: i numeri si “pensano” nella lingua che sentiamo come primigenia perché, come spiega il neuropsicologo Jubin Abutalebi, «la matematica attiva circuiti cerebrali diversi da quelli del linguaggio e chiama in causa un maggior “controllo”. Da un certo punto di vista è simile alla grammatica, la parte del linguaggio più influenzata dal periodo di apprendimento dell’idioma: nei bilingui tardivi ad alta padronanza, quelli cioè non distinguibili dai madrelingua anche se hanno appreso la seconda lingua non in contemporanea alla prima, una mappatura cerebrale rivela una maggiore attivazione delle aree di controllo esecutivo durante compiti di grammatica, mentre in caso di compiti lessicali o semantici l’attivazione è identica a quella di un bilingue precoce. Per padroneggiare la grammatica delle lingue apprese dopo l’infanzia serve perciò uno sforzo cognitivo maggiore».
Da Carlo Magno a Noam Chomsky

Si dice che Carlo Magno abbia detto: «Conoscere una seconda lingua significa possedere una seconda anima». Ne era convinto anche il linguista americano Benjamin Lee Whorf che, nel 1940, postulò la teoria secondo cui il linguaggio plasma il cervello al punto che due persone con lingue differenti saranno sempre cognitivamente diverse. Tale tesi passò di moda con gli studi di Noam Chomsky, che negli anni ‘60 e ‘70 propose la teoria di una “grammatica universale”, ovvero basi generali comuni per tutti i tipi di linguaggio. A partire dagli anni ‘80, però, alcuni studiosi hanno iniziato a rivalutare Whorf, depurando la sua teoria dagli eccessi: così oggi sappiamo che, al di là di fondamenta concettuali simili, ogni linguaggio sottende una sua “visione del mondo” e la infonde, almeno in parte, in chi lo parla. Un esempio è il senso di colpa e di giustizia: in inglese se un vaso si rompe si sottende sempre la presenza (e quindi la responsabilità) di qualcuno, in spagnolo si tende a dire che il vaso si è rotto. Secondo alcuni proprio da questo dipende la tendenza anglosassone a punire chi trasgredisce le regole, più ancora che risarcire le vittime.

http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/16_febbraio_26/lingua-influenza-personalita-modella-cervello-95a1f04a-dc83-11e5-830b-84a2d58f9c6b.shtml?cmpid=SM_CorriereNazionaleEngagementAprile_fp_facebook_undefined_cpc_EngagementNazionaleAprile&refresh_ce-cp



lunedì 18 aprile 2016

La fatica di leggere è reale

La fatica di leggere è reale.
Per questo il piacere della lettura è una conquista preziosa. Lo è perché leggere arricchisce la vita. E lo è doppiamente proprio perché leggere è anche un’attività del tutto innaturale. I lettori esperti tendono a sottovalutare questo fatto. O se ne dimenticano.
Comunicare è naturale. Come ricorda Tullio De Mauro, la capacità di identificare, differenziare e scambiarsi segnali appartiene al nostro patrimonio evolutivo e non è solo umana: la condividiamo con le altre specie viventi, organismi unicellulari compresi.

L’INNATURALE FATICA DI LEGGERE. Leggere, invece non è naturale per niente. Ed è faticoso. La fatica di leggere è sia fisica (i nostri occhi non sono fatti per resta
re incollati a lungo su una pagina o su uno schermo) sia cognitiva: il cervello riconosce e interpreta una stringa di informazioni visive (le lettere che compongono le parole) e le converte in suoni, e poi nei significati legati a quei suoni.
Poi deve ripescare nella memoria il significato delle singole parole che a quei suoni corrispondono, e a partire da questo deve ricostruire il senso della frasi, e dell’intero testo. Tutto in infinitesime frazioni di secondo, e senza pause.
È un’operazione impegnativa, che coinvolge diverse aree cerebrali e diventa meno onerosa e più fluida man mano che si impara a leggere meglio, perché l’occhio si abitua a catturare non più le singole lettere, ma gruppi di lettere (anzi: parti di gruppi di lettere. Indizi a partire dai quali ricostruisce istantaneamente l’intera stringa di testo). Un buon lettore elabora, cioè riconosce, decodifica, connette e comprende tre le 200 e le 400 parole al minuto nella lettura silenziosa.

LA LETTURA SILENZIOSA DI SANT’AMBROGIO. La stessa lettura silenziosa è una conquista recente. Greci e latini leggevano compitando il testo a voce alta, o sussurrando. Quando il giovane Agostino di Ippona va a trovare sant’Ambrogio, che è un gran lettore, resta talmente colpito dal fatto che legga in silenzio da registrarlo, poi, nelle Confessioni: «Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente.»

MPARARE A LEGGERE. La lettura silenziosa si afferma, secondo gli studiosi, solo nel 1600: appena quattro secoli fa. E la diffusione della reale capacità di leggere è ancora più recente, specie nel nostro paese: nel 1861, anno dell’unità d’Italia, gli analfabeti sono quasi l’80 per cento della popolazione, con punte del 90 per cento e oltre in Sardegna, Calabria e Sicilia. Un’intensa opera di scolarizzazione riduce gli analfabeti totali a meno del 13 per cento della popolazione nel 1951.

TRA DOVERE E VOLER LEGGERE. Ma oggi, e a dirlo è l’Ocse, il 69 per cento degli italiani è ancora sotto il livello minimo di competenza nella lettura necessario per vivere in un paese industrializzato. Se questo è il dato di base, non deve stupire che il 58 per cento degli italiani dai sei anni in su non abbia spontaneamente (cioè non per obbligo scolastico o lavorativo) aperto neanche un libro negli ultimi 12 mesi, manuali di cucina e guide turistiche comprese.
Tra saper decifrare un testo semplice, si tratti di un sms o di una lista della spesa, e saper agevolmente leggere e capire un testo di media complessità al ritmo di centinaia di parole al minuto c’è un abisso.

MOTIVARE A LEGGERE. Prima di interrogarsi sulle strategie per colmarlo bisognerebbe, credo, farsi un’altra domanda: che cosa può motivare le persone che leggono poco a leggere di più (e, dunque, a imparare a leggere meglio? In altre parole: che cosa compensa davvero la fatica di leggere?
Bene: sapete (ne abbiamo già parlato) che le motivazioni più forti sono quelle interne, o intrinseche (sentirsi bravi, capaci, appagati) Le motivazioni esterne (o estrinseche) come premi e punizioni, voti scolastici compresi, funzionano meno.

LA FATICA DI LEGGERE E IL SUO COMPENSO. C’è, credo, un’unica cosa che può pienamente compensare l’innaturale fatica di leggere, ed è il piacere della lettura: il gusto di lasciarsi catturare (e perfino possedere) da una storia, o il gusto di impadronirsi di un’idea, una prospettiva, una competenza nuova attraverso un testo. È il piacere di sentirsi appagati, o migliori.
Ma è un piacere difficile perfino da immaginare finché non lo si sperimenta, arduo da evocare e raccontare (non a caso molte campagne in favore delle lettura lasciano il tempo che trovano. Non tutte, però) e impossibile da imporre.

LEGGERE A VOCE ALTA, AI PICCOLI (E NON SOLO). Per questo, credo, è così tremendamente importante leggere a voce alta ai bambini più piccoli. È l’unico modo per renderli partecipi del piacere della lettura prima ancora di sottoporli alla fatica di leggere. Se sanno qual è la ricompensa e l’hanno già apprezzata, affronteranno più volentieri la fatica. E, leggendo, a poco a poco poi se ne libereranno.
Ho però la sensazione che l’assai sottovalutata lettura a voce alta possa conquistare ai libri anche gli studenti più grandi, e perfino qualche adulto.
Ma gli insegnanti e gli addetti ai lavori sono per forza di cose lettori più che esperti, ormai estranei alla fatica di leggere. A loro, l’idea di regalare un po’ del (contagioso!) piacere di leggere a chi non sa sperimentarlo attraverso la lettura ad alta voce può sembrare un’idea strana, antiquata o bizzarra. Eppure a volte le idee antiquate o bizzarre danno risultati al di là delle aspettative. Prometto di tornare a breve sull’argomento.

giovedì 14 aprile 2016

Metacognizione: pensare il pensiero

Metacognizione è una parola interessante.

Rimanda a un concetto ancora più interessante, che riguarda un’attività interessantissima. Peccato che sia la parola, sia il concetto, sia l’attività risultino meno frequentati di quanto dovrebbero.

Provo a rimediare.

La parola, prima di tutto. Unisce la preposizione greca ‪μετα- (che significa, tra le altre cose e in questo caso, “oltre, dopo”) e il termine cognizione, che sta per conoscenza, o per complesso di informazioni e conoscenze.

La parola metacognizione viene impiegata in ambito specialistico, psicologico o educativo ed è poco diffusa: se la cerco con Google trovo solo 52.000 risultati. Se cerco metafora i risultati sono più di 7 milioni. Se cerco metabolismo sono più di 19 milioni.

Metacognizione indica una capacità che è, per quanto ne sappiamo, esclusiva degli esseri umani: quella di auto-osservare la propria attività di pensiero e di riflettere sui propri stati mentali.

In altre parole: esercitare la metacognizione vuol dire pensare a come e perché stiamo pensando proprio quello che stiamo pensando, nel modo in cui lo stiamo pensando.

È, dicevo, un esercizio interessante.

I primi studi sulla metacognizione, che risalgono alla fine degli anni ’70, riguardano i processi inconsci attivati dagli studenti migliori: quelli che sono in grado di risolvere problemi in modo efficace e di sviluppare un pensiero indipendente e che, nella sostanza, sanno “guidarsi da soli” nello studio. Individuano due grandi ambiti della metacognizione:

– il saper distinguere i diversi processi mentali: percepire quanto esiste o accade intorno a noi, focalizzare l’attenzione su singoli elementi, ragionarci sopra, ricordare.

– il capire come si svolgono questi processi: cioè che cosa succede nella nostra mente quanto percepiamo, o quando stiamo attenti a qualcosa, o quando pensiamo a qualcosa, o quando ricordiamo qualcosa. Questo ci aiuta a valutare l’efficacia di ciascun processo, a orientarlo e a migliorarlo.

Oggi sappiamo che i bambini possono esercitare forme rudimentali di pensiero metacognitivo già attorno ai 3 anni, che questa capacità cresce molto entro i 6 anni e che può essere migliorata evocandola, diventandone consapevoli ed esercitandola.

Il sito Edutopia ci conferma che la metacognizione può essere sviluppata anche negli studenti più giovani, e che un buon modo per iniziare è proprio definire il termine “metacognizione”, illuminandolo con una metafora semplice come “prendere la guida del proprio cervello”.

Altri suggerimenti interessanti per addestrare gli studenti alla metacognizione si trovano sul sito dell’associazione di educatori ASCD. Eccone alcuni: accendere l’attenzione non solo su che cosa, ma su come gli studenti stanno imparando. Condividere gli obiettivi di apprendimento con gli studenti. Pensare “ad alta voce”, in modo da permettere agli studenti di comprendere le strategie di pensiero “esperte” dell’insegnante e di farle proprie. Oppure incoraggiare gli studenti a riflettere su come si sono organizzati per ottenere un determinato risultato.

Una rassegna degli studi sulla metacognizione a cura di Pearson, il maggior gruppo editoriale del mondo nel campo dell’educazione, ci offre qualche altra informazione notevole. Per esempio: tutti noi possediamo teorie tacite sul modo in cui ragioniamo, ma non ci facciamo caso, spesso non ne siamo neanche consapevoli, non le organizziamo in un sistema strutturato e quindi non ne traiamo alcun vantaggio.

E ancora: la metacognizione è connessa sia con la capacità di esercitare il pensiero critico (analizzare i dati, valutarli, prendere decisioni), sia con l’apertura mentale e quindi con la creatività. E poi: la metacognizione è connessa anche con la motivazione, cioè con l’energia interiore che ci spinge a fare le cose nella consapevolezza che, se ci applichiamo, riusciremo a farle bene. Ne abbiamo parlato di recente anche qui, su NeU.

Tutto questo ci dice che sviluppare la metacognizione può essere importante a scuola, e non solo a scuola. Dopotutto, conoscere meglio i nostri processi di pensiero significa conoscere meglio noi stessi, le risorse che possiamo mettere in campo, i punti di forza e di debolezza. E poter imparare a usare meglio tutte le nostre risorse.

Credo che, anche da adulti, valga le pena di coltivare la metacognizione. Per esempio, interrogandosi sul perché si fanno certe scelte (ehi: interrogarsi è diverso dal rimuginarci sopra!), o sugli elementi a partire dai quali si affrontano problemi o si formulano giudizi.

Ma anche leggere romanzi, guidandoci a conoscere i pensieri, le motivazioni, le scelte dei personaggi, può aiutarci a scoprire qualcosa in più del nostro pensiero non solo come lettori, ma come esseri umani (quasi sempre) pensanti.