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giovedì 18 dicembre 2014

Multitasking: inefficace, disorganizzato e tossico

Adesso gli scienziati lanciano l’allarme sulle conseguenze del multitasking trilla un recente articolo su La Repubblica. Dopo un lungo, colorito esordio arriviamo a un primo fatto: Sandra Bond Chapman, fondatrice del Center for Brain Health dell’università di Dallas, afferma che il multitasking accresce i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. E spiega che il nostro cervello sa far bene una cosa alla volta: i neuroni, se devono sorvegliare molte attività contemporaneamente, non riescono a spartirsi i compiti e li tengono tutti sotto controllo millisecondo per millisecondo, commutando il proprio impegno dall’uno all’altro. Risultato: un superlavoro che produce risultati modesti e imprecisi.
Il secondo fatto è questo: una “recentissima ricerca” svolta da Altmann, Trafron e Hambrick dell’Università del Michigan su un campione di studenti dimostra che basta l’apparizione di un pop up in cui bisogna inserire un codice per moltiplicare le possibilità di errori in un compito di routine svolto al computer.
Bene, evviva, finalmente si dice forte e chiaro che il multitasking non funziona.
Due clic e vado a vedere: in realtà l’allarme dei ricercatori sul multitasking non è cosa di “adesso”.
Quasi due anni fa su Forbes la stessa Chapman esalta il single tasking, riferendosi al proprio libro Make your brain smarter, uscito il primo gennaio 2013. E va giù dura: il multitasking è tossico, diminuisce l’acutezza mentale e la memoria e provoca un declino cognitivo precoce. Dice che l’essere costantemente connessi causa un rilascio di dopamina nel cervello che può creare dipendenza e che rende incessante il bisogno di velocità e nuovi stimoli. Aggiunge che basterebbero poche ore di training per imparare a pensare in maniera strategica, una cosa alla volta, addestrandosi a filtrare le sollecitazioni esterne. L’articolo è interessante e potreste dargli un’occhiata, link e consigli compresi.
Anche lo studio di Altmann, Trafron e Hambrick (qui il paper) è uscito nel gennaio 2013. Un ottimo articolo di Psychology Today ne spiega lo svolgimento e i risultati: il multitasking pregiudica la memoria di lavoro. Cioè ci fa dimenticare quel che abbiamo fatto appena prima e quel che dovremmo fare subito dopo l’interruzione. Questi vuol dire che se stiamo scrivendo perdiamo il filo, se stiamo pensando perdiamo il senso, e se stiamo eseguendo una qualsiasi procedura non sappiamo più a che punto siamo della sequenza.
Ma già nel 2006 l’American Psychological Association se la prende col multitasking, segnalandone l’inefficacia a partire da diverse ricerche, alcune svolte addirittura nei primi anni Novanta quando, in Italia, di multitasking non avevamo neanche cominciato a parlare.
Nel 2009 l’università di Stanford dimostra che i multitasker non sono né più abili né più veloci dei single taskers, ma semplicemente più disorganizzati e incapaci di focalizzare l’attenzione.
È invece davvero recentissimo (settembre 2014) un preoccupante studio dell’università del Sussex, il primo a mettere in evidenza una correlazione tra struttura del cervello e propensione al multitasking. In sostanza, i multitasker presentano minore densità di materia grigia nella parte del cervello (la corteccia cingolata anteriore) responsabile dell’empatia, del controllo degli impulsi e delle emozioni, dei processi decisionali. Inoltre risultano più soggetti ad ansia e depressione. Però non si capisce ancora se questa sia una causa o un danno conseguente alla pratica del multitasking.
Com’è allora che, nonostante anni di evidenze scientifiche, il multitasking fino a ieri è sembrato il massimo della modernità, almeno qui da noi? Ho l’antipatico sospetto che esaltarlo fosse anche un comodo modo per giustificare il superlavoro femminile. Guardate qui, per esempio: di una ricerca che mette a confronto uomini e donne nello svolgimento di più compiti non si segnala il drammatico peggioramento delle prestazioni di tutti, ma si enfatizza il fatto che le prestazioni femminili peggiorino (appena) un po’ meno. Un articolo americano sulla medesima ricerca, invece, in conclusione mette comunque in guardia contro il multitasking.
Alcuni hanno perfino, e in modo un po’ spericolato, sostenuto che sia stato l’obbligo del multitasking, e non – per esempio – la maggiore scolarizzazione o il miglioramento delle condizioni medie di vita, a rendere più intelligenti le donne.
E dai, non scherziamo.
Un altro sospetto antipatico riguarda l’incessante pressione commerciale per diffondere l’impiego di schermi e applicazioni di ogni tipo, e l’altrettanto forte pressione mediatica volta a stimolare interazioni elementari (Guarda qui! Dicci quel che pensi! Approva! Disapprova! Esprimiti!) ma comunque fidelizzanti nei confronti dei media medesimi.
Il sospetto meno antipatico, invece, riguarda una più generica e pervasiva fascinazione per la modernità, perfino quando si esprime nelle sue forme più dispersive e disfunzionali.
Com’è, invece, che proprio ora si è cominciato a parlar diffusamente male del multitasking (cercate su Google le notizie uscite negli ultimi mesi e vedrete che c’è una presa di distanza generalizzata, all’estero e anche in Italia)?
Da una parte, le evidenze contro il multitasking sono cresciute così tanto che diventa difficile ignorarle. Lo studio dell’università del Sussex, per esempio, è stato ampiamente ripreso in tutto il mondo. Dall’altra, il testo “Pensieri lenti e veloci” del Nobel Daniel Kahneman ha, come scrive il Guardian, radicalmente “cambiato il modo in cui pensiamo al pensiero”. Infine, dallo Slow Food allo Slow Design, alla Slow Medicine, alla Slow TV la lentezza sta tornando di moda.

http://nuovoeutile.it/multitasking/